Mario Sironi al Vittoriano. Dagli esordi simbolisti al ritorno al quadro
Complesso del Vittoriano, Roma – fino all’8 febbraio 2015. Novanta dipinti, bozzetti, dettagliati studi, riviste e documenti autografi attestano l’attività di un animo sensibile e tormentato. A vent’anni di distanza dalla personale romana a lui dedicata dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna, questa retrospettiva ha il grande pregio di ripercorrere l’intera parabola della produzione di Sironi. Delineandone così l’articolato profilo sia sul piano artistico che su quello umano.
La pittura di Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961) conosce varie fasi, mostrandosi permeabile ai fermenti artistici dell’epoca, ma si distingue per uno stile molto caratteristico in cui lo spiccato senso plastico delle forme e l’energica definizione del segno creano spazi di grande suggestione. Superati gli iniziali modi tardosimbolisti, l’artista guarda con interesse agli sviluppi dei futuristi: alla scuola di nudo in via di Ripetta studia la pittura di Giacomo Balla e incontra Umberto Boccioni, il cui influsso si coglie ne Il camion (1914-15).
La temporanea adesione ai modi della Metafisica è ben esemplificata in mostra da La lampada (1919). La rielaborazione del modello è manifesta: il manichino, ripreso da Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, si anima ma resta calato entro una dimensione quotidiana e quindi ancorato al reale, escludendo ogni riferimento propriamente meta-fisico. Gli Anni Venti vedono l’artista attivo nel gruppo di Novecento, che fa del classicismo (della rielaborazione critica di Giotto e Masaccio soprattutto) la fonte privilegiata d’ispirazione.
La grandiosità con cui il pittore interpreta questa teoria neogiottesca non cede mai il passo all’indugio descrittivo, suggerendo una sorta di sovrasenso: “Mi è stato rimproverato di non occuparmi di campi coltivati, pittoresco da giardino […], casette sul mare e simili stupidaggini ma di vedere soltanto rocce deserte, altitudini desolate dove l’uomo si misura con la vastità dello spirito”. Per Sironi, infatti, “l’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, comprensibile, ma esige grandezza, altezza di principi”.
Il vigore statuario caratterizza le opere dei primi Anni Venti, come L’architetto (esposto alla Biennale di Venezia del 1924), Venere (1923-24) e La solitudine (1925): soggetti isolati di una bellezza intensa quanto essenziale, levigata nella forma ma ruvida a un livello più profondo. Dopo una passeggera “crisi espressionista” (Il pescatore, 1930), in cui la materia si stempera in tratti mobili e irregolari, Sironi approda negli Anni Trenta a opere parietali su vasta scala (affreschi, mosaici, ampie vetrate di edifici pubblici), a cui sono riferibili gli splendidi studi e bozzetti in mostra.
Nel ritornare alla tempera (Anni Quaranta) permane nei modi il richiamo al grande formato. L’angoscia esistenziale, acuita dal suicidio della figlia Rossana (1948), appena diciottenne, e una pervasiva sfiducia postbellica lo porteranno a opere struggenti (Apocalisse, 1961). In un appunto trovato nel suo studio, si legge: “Ogni giorno è lo sforzo immane di vivere, di resistere con questo cuore schiantato dalla enorme fatica di esistere. Non c’è nessuno qui vicino a me, ancora e sempre solitudine atroce. In certi momenti mi illudo ancora. Poi torna a soffiare il vento livido orrendo. S’è tutto rotto in queste mani, tutto. Non sono rimaste che macerie e paura”.
Giulia Andioni
Roma // fino all’8 febbraio 2015
Sironi 1885-1961
a cura di Elena Pontiggia
Catalogo Skira
COMPLESSO DEL VITTORIANO
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