Una rivoluzione chiamata Frank O. Gehry. Al Pompidou di Parigi
La prima retrospettiva europea dedicata a Frank O. Ghery occupa gli spazi del Centre Pompidou di Parigi. Non a caso, in concomitanza con l’inaugurazione della “sua” Fondation Luis Vuitton al Bois de Boulogne. Un evento che ha focalizzato l’attenzione mediatica su un architetto la cui fama viene preceduta soprattutto per lo stupore destato per opere avveniristiche, sopra le righe e audaci.
Il Dancing Building è un atto creativo originale, che avrebbe potuto vedere la luce solo agli inizi degli Anni Novanta, nell’atmosfera post-rivoluzionaria di una Praga in fermento: in tali circostanze avrebbe potuto sorgere un edificio d’angolo che si distaccasse dalla cortina urbana preesistente, per diventare opera scultorea. Composta da una teoria di finestre regolari e linee fluide che si installano, come una pelle multiforme, sull’edificio, passando dall’astrazione alla rappresentazione, così infine furono presentati ai cechi e al mondo intero Fred and Ginger, sulle rive del fiume Vltava, in un amplesso regale, sincero, elegante.
Frank O. Gerhy (Toronto, 1929; vive a Los Angeles), all’epoca, è già un agitatore di menti, loquace disegnatore, instancabile sognatore, rifugge dalla realtà della costruzione letterale e gioca su campi artistici leggeri come nuvole, oltrepassando il kitsch, sublimandolo a strumento di comunicazione graffiante, irripetibile. Arrivando all’architettura attraverso l’arte – il cui fascino compiacente non cessa mai di esistere nel suo operato – intenta alti e ridondanti momenti di verità, nell’utilizzo del colore, nell’intuizione, nella forma e persino nella dimensione. Asservendo l’occhio incuriosito ai propri scopi, affinché possa intervenire alla bellezza della composizione, Gehry fa dono di esempi di architetture che, in virtù del potere mediatico della comunicazione di cui sono intrisi, fanno il giro del mondo, diventando persino familiari; edifici che si fanno lemma di un linguaggio universale.
Per nulla evidente è però il processo per arrivare ad essi: gli schizzi da cui derivano sono pensieri ad alta voce, sviluppano l’immaginazione intesa nel senso di Bruno Munari, come visualizzazione del nuovo, e quindi stimolo percettivo. Sono passaggi non evidenti ai più.
Lo sketch per Gehry è uno strumento cognitivo basilare, un modo per trascrivere i pensieri – siano essi di carattere tecnico o estetico – per dar credito quindi all’informalità del work-in-progress dei disegni, il cui apporto esplorativo e intellettuale confluisce nella pratica dell’investigazione architettonica pura.
L’affrancamento dalle convenzioni, inoltre, inserisce la sua opera in quel filone di architetti che hanno fatto delle proprie creazioni un’ermeneutica concettuale, la cui eredità è stata per lunghi anni stella votiva per i più giovani sperimentali. Pur nel perpetrarsi, in susseguenti opere, di un’estetica ripetitiva e autoreferenziale.
Fulminante fu per tutti l’amore per il Guggenheim Museum a Bilbao, la più celebrata architettura contemporanea, a cui fa seguito la Walt Disney Concert Hall di Los Angeles; superfici di titanio, successione di plastici gesti di scocche vibranti, nell’atto creativo, tradotti in un progetto: fogli accartocciati, maquette di studio rimaneggiate, demolite e reinventate a scultorea vita danno origine alla sua cifra stilistica, delineando una firma innegabile quanto unica.
Nell’ultimo titanico lavoro, la Fondation Louis Vitton nel Bois de Boulogne, introduce un materiale nobile, la pietra – solida, chiara, stereometrica – di cui sono rivestiti i blocchi principali del complesso. Quindi si elevano, leggere, le vele di vetro che riflettono le nuvole, e che si stagliano come carene di navi sospese su paesaggi, in contrasto col nitore poliedrico sognante della pietra, le scocche non sono ridondanti, ma accumulano il riverbero dello spazio diafano, lontano. La fantasia è ingombrante.
Siamo ben lontani dall’avveniristico lavoro di ricerca decostruttiva degli esordi, in cui il linguaggio di rivolta era anche, e soprattutto, dato da un utilizzo di materiali industriali e di risulta, quali assi di legno, reticoli in acciaio, lamiere ondulate, utilizzate all’uopo per portare l’esterno all’interno – in un’estetica le cui radici si riscontrano nel One-room building di Philip Johnson – riproducendo il landscape tradizionale californiano. C’è più genius locinella sua Casa abitazione a Santa Monica che altrove, non fu più così nello sviluppo successivo della sua produzione, pur dando mostra di una cultura architettonica le cui radici fondano sui grandi maestri del XX secolo, a cominciare da Alvar Aalto.
Una parola primeggia tra tutte, nell’invenzione dei sogni, l’ambizione, unita alla libertà. Le dicotomie concettuali in cui è scandita la mostra monografica del Beaubourg sono anche chiave di lettura per la progressiva perdita di riferimenti bidimensionali, per arrivare all’esplorazione di riferimenti visivi grazie anche all’apporto di nuove tecnologie, e all’introduzione del 3d e del programma Catia. In architettura, nel disegno e nell’iconografia si riversano quindi serie di nuovi linguaggi inesplorati, e quindi potenzialmente immensi.
Molti critici negli anni lo snobbarono, riconoscendo in lui solo l’aspetto di superficie, la ripetizione di stilemi, la destabilizzazione di spazi mai omogenei. I suoi schizzi invece parlano di poesia, la spaccatura che il Guggenheim di Bilbao segnò in architettura fu mistico divenire di un pensiero contemporaneo, il nuovo linguaggio architettonico fu una scoperta improvvisa per tutti – grazie al quale, come in una farsa, l’architettura si avvicinò alla gente urlando, per lasciare a bocca aperta tutti, compresi i più puristi, diventando infine pop, un sogno per tutti.
Non a caso Sidney Pollack gli dedica un film documentario, nel 2006, intitolandolo proprio Frank Gehry, creatore di sogni.
Claudia Brivio
Parigi // fino al 26 gennaio 2015
Frank Gehry
a cura di Frédéric Migayrou
CENTRE POMPIDOU
Place Georges-Pompidou
+33 (0)1 44781233
www.centrepompidou.fr
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