Eugene Lemay e la riscoperta del dialogo interiore. Al Macro Testaccio
Macro Testaccio, Roma – fino al 10 maggio 2015. In collaborazione con il Mana Contemporary di Jersey City, la dépendance del museo capitolino accoglie la personale di Eugene Lemay. Una mostra sul concetto di dialogo, debitamente reinterpretato.
L’esperienza artistica di Eugene Lemay (Grand Rapids, 1960) è inevitabilmente segnata dagli anni trascorsi nell’esercito israeliano, a contatto con la paura, il buio, la morte, la distruzione. Ed è proprio questo a colpire, addentrandosi nello spazio espositivo: la cupezza delle opere di grande formato, così grandi che immergono lo spettatore nelle fitte trame dell’oscurità vissuta da Lemay durante quegli anni, per gran parte impiegati in esplorazioni notturne del territorio nemico.
Ricorrono infatti, nella sua produzione, paesaggi desolati e cieli tenebrosi dai quali emergono sagome di aerei, ma anche pannelli con caratteri arabi resi volutamente illeggibili, tratti dalle lettere che lo stesso Lemay scrisse ai familiari dei soldati caduti in Libano e che mai consegnò. Una sorta di “codice del silenzio” da cui trapela un lamento che solo chi ha vissuto simili esperienze è in grado di comprendere. Così le parole, estrapolate dal loro contesto originario e riproposte in uno spazio nuovo, assumono valore di forme, simboleggiando il bisogno dell’essere umano di comunicare.
Ed è in primis l’artista a percepirne l’urgenza, affidando all’opera d’arte il ruolo di intermediario in un dialogo che riscopre la sua dimensione interiore ed emozionale, a dispetto di quel processo di globalizzazione che ha privato la comunicazione di ogni significato e impegno morale.
Eppure Lemay non nasce artista. È solo a partire dal 1993 che, profondamente colpito dalle composizioni bianco su bianco di Robert Ryman esposte al MoMA di New York, inizia a sperimentare una forma comunicativa del tutto personale, quasi avesse trovato lo strumento per dar sfogo ai traumi rimasti fino a quel momento inespressi, inclusi quelli di un’infanzia vissuta in un turbolento quartiere nero negli anni delle lotte per i diritti civili, prima di emigrare con la famiglia in Israele.
La poetica dell’artista americano raggiunge il suo apice nella grande installazione Hezron, in cui le macerie, chiaro riferimento alla distruzione provocata dalla guerra, sono al contempo metafora di una devastazione interiore, che cerca disperatamente risposta e conforto in chi la osserva.
Francesca Colaiocco
Roma // fino al 10 maggio 2015
Eugene Lemay – Dimensions of dialogue
a cura di Micòl di Veroli
MACRO TESTACCIO
Piazza Orazio Giustiniani 4
06 671070400
[email protected]
www.museomacro.org
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/42403/eugene-lemay-dimensions-of-dialogue/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati