Beppe Devalle al Mart. L’alternativa c’è
Rovereto, MART – fino al 16 febbraio 2016. Una mostra inusuale su un pittore dimenticato. Per riscoprire uno dei grandi protagonisti del Novecento italiano, rileggendo la storia secondo criteri completamente diversi. Senza Celant e Kounellis.
UN FRUTTO IGNOTO
I linguaggi artistici si possono studiare in due modi: per addizione o per sottrazione. Alla mostra di Beppe Devalle (Torino, 1940 – Milano, 2013) al MART di Rovereto si può entrare dall’inizio o dalla fine. È una scelta precisa, consapevole: si può vedere il frutto della pianta e scendere fino alle sue radici, o vederla crescere dal seme e pian piano germinare.
Qualcuno dirà che questa pianta, Beppe Devalle, proprio non la conosce, non l’ha mai sentita nominare. E purtroppo non stupisce. Questa mostra così ambiziosa – una retrospettiva di quasi cento opere, che copre tutta la carriera dell’artista – vuole al contempo storicizzarlo come uno dei protagonisti italiani del secondo novecento e farlo conoscerlo al grande pubblico.
Il progetto è, insomma, di quelli ambiziosi: non si discosta tanto da quelle gloriose operazioni espositive che, verso la metà del Novecento, hanno reso il pubblico consapevole di segmenti preziosi e ignorati della storia dell’arte. E da quella tradizione discende il pool dei curatori, in effetti, tra cui spiccano alcuni dei nomi più importanti della storia dell’arte italiana (su tutti Carlo Bertelli, unico italiano vivente ad aver tenuto le prestigiose Mellon Lectures a Washington). Ma in totale i curatori sono dieci, secondo un modello – che pare piacere molto al neo-direttore Maraniello – che va contro la star-curatorship, tanto da mettere al centro della curatela i familiari stessi dell’artista, Jolanda e Maria Teresa Devalle.
UN POP COLTO
Se si parte dall’inizio della mostra, allora, si vede un giovane pittore torinese affascinato dall’Informale di Gorky, dall’hortus conclusus di Klee. Un pittore che poi viene turbato dall’Almanacco Bompiani dell’Arte Pop del 1963 (quando non c’era Internet…), che rivoluzionerà per sempre la sua opera. Ma l’atteggiamento è, da subito, critico: il prelievo dalla realtà avviene attraverso il collage dai rotocalchi più popolari, secondo l’idea di un pop “colto” più tipicamente inglese che americano.
E tuttavia Devalle sembra ancora più critico nei confronti di quella realtà perché, a differenza di Hamilton, lui le figure non solo le accosta in modo esplosivo, ma le taglia-e-cuce, le distrugge con crudeltà, le usa come una nuova Hannah Hoch ossessionata dall’eleganza. I colori cambiano, inizia a usare gli acrilici per trasferire il collage su supporti più grandi e stabili. Sono anni di successi, di Biennali, di grandi critiche.
RITORNO ALLA STRUTTURA
Nello svilupparsi di una carriera fatta di crisi continue, Devalle si rende conto di non poter continuare a dipendere così direttamente dal prelievo dalla realtà. Sente di dover verificare gli strumenti del discorso, senza fare un cine-giornale di bellezza. Torna allora allo studio della prospettiva (e quante letture colte, in quegli anni…), alla costruzione di impalcature tridimensionali di quadri di testa, di studio: Ebony, Prospettiva, Complesso, African Tree gli portano via anni di lavoro, in un momento storico in cui Germano Celant e i poveristi facevano operazioni che dire agli antipodi sarebbe eufemistico.
Tornato consapevole del linguaggio di base, delle strutture del quadro, Devalle torna alle immagini dei rotocalchi. Niente della consapevolezza acquisita viene perduto: la ragnatela geometrica di Beppe diventa il baluardo della lotta contro l’irrazionale e l’istintuale dei “surrogati artistici tendenti a far coincidere l’arte con la vita”.
L’INIZIO DELLA FINE
È l’inizio, però, della fine del successo. Sempre più il pittore si chiude in un isolamento che poi lo porta alla rinconquista degli strumenti del disegno a mano libera, all’analisi dell’arte antica, secondo l’idea che “la mancanza di tecnica impedisce l’immaginazione”.
Sono piccole anamorfosi nei disegni che lo fanno tornare alla pittura. La necessità dell’amplificazione emotiva e dimensionale di queste note stonate – in ultima analisi, del contenuto – lo spinge verso i formati ampi e forti della pittura dell’ultimo ventennio, che inizia, significativamente, con il duello della michelangiolesca Palestra: due donne e due uomini monumentali agli angoli di una stanza che si affrontano.
Dopo una vita di domande iniziano ad arrivare le risposte. Si arriva ad una pittura consapevole dei propri mezzi, monumentale, ancorata al reale, consapevole della tradizione, colta ma non arroccata, densa di contenuti, distaccata, ma non troppo, da una vita crudele che porta a Devalle anche un lungo, estenuante tumore. La malattia non gli impedisce, però, la gestualità raffinata del taglio (quello della forbice sul collage, quello di Fontana sulla tela), del sì/no, tengo/scarto rispetto alla realtà, dell’impietoso giudizio morale di chi giudica tutta un’epoca che forse – e qui la domanda ce la fa lui (GuardandoVi) – abbiamo letto con criteri sbagliati.
Giulio Dalvit
Rovereto // fino al 14 febbraio 2016
Devalle (1940-2013)
a cura di Carlo Bertelli, Paolo Biscottini, Barbara Cinelli, Flavio Fergonzi, Daniela Ferrari, Maria Mimita Lamberti, Sandra Pinto, Giovanni Romano, Alessandro Taiana, Dario Trento, con Maria Teresa e Jolanda Devalle
Catalogo Electa
MART
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