Warhol Unlimited a Parigi. Oltre i confini di spazio e tempo
MAM, Parigi – fino al 7 febbraio 2016. Anche questo vuol dire fare sistema: da un lato della strada c’è il Palais de Tokyo con un omaggio a John Giorno e Ragnar Kjartansson, dall’altra il Museo d’Arte Moderna fa botteghino con Andy Warhol. Con una mostra che Parigi sta apprezzando parecchio.
130 METRI DI VARIAZIONI CROMATICHE
L’icona della Pop Art newyorchese accompagna il visitatore nella dimensione dell’istante, riprodotto nella serialità delle sue Shadows (1978-79) che vengono presentate, eccezionalmente, in Europa e nella loro totalità. Considerate dalla critica la peggiore e la migliore opera di Warhol, le 102 serigrafie, composte ognuna da due immagini astratte che si colorano di 17 diverse tonalità cromatiche, si dispiegano alternativamente in positivo e in negativo lungo un perimetro di oltre 130 metri. Dimensione che sembra non possedere inizio né fine, conforme al genio Pop nella sua volontà di oltrepassare i limiti artistici dello spazio e del tempo.
È questo il fulcro della mostra parigina, il cui allestimento sconvolge i canoni tradizionali e sfida l’unicità dell’opera d’arte, conducendo verso una percezione quasi maniacale della creazione di Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987), che si presenta come una sorta di assemblaggio di elementi non eterogenei, bensì omogenei. Fatto, questo, che sembra ripercorrere la storia dell’arte moderna, fin dalle invenzioni di Rodin – le celebri Trois Ombres non ne sono forse precorritrici? – alle diatribe sul tempo tra Bergson e Einstein che ben si prestano all’analisi delle creazioni artistiche, alle novità cinematografiche di Eisenstein del primo Novecento.
IMMAGINI POP E CINEMA SPERIMENTALE
Il percorso della mostra apre le porte alla serialità, alla ripetizione dell’oggetto, dell’istante, del momento, muovendosi tra i simboli del consumo popolare, caricati di un valore estetico e monetario, quali la Campbell’s Soup (1969) e la Brillo Soap Pads Box (1964), gli autoritratti (1966-67, 1981) – giocati sul contrasto tra colori primari e secondari – dove Warhol mette in scena l’ombra del suo profilo tagliente occupando oltre la metà dell’opera, e le serigrafiche rappresentazioni di Jackie Kennedy (1964), delle Sedie Elettriche (1964-71), dei Fiori (1964-65) e di Mao (1972-73), svuotato di ogni significato politico ed emblema di un’epoca mediatica.
Ma la provocazione di Warhol non si arresta alle icone che volgarizza nei suoi colori forti e vivaci. Il cinema sperimentale che, tra il 1963 e il 1968, rompe gli schemi canonici e si rende complice attore del percorso espositivo, cattura una riflessione ancora rivolta al tempo e al flusso continuo percepito dalla coscienza. Nessun fine narrativo; le sue riprese non hanno traguardo. Nessun movimento, nessun montaggio, nessun racconto. Dai 35 minuti di Blow Job (1964) alle otto ore dell’Empire State Building (Empire, 1964) fino ai quattro minuti di Screen (1965), la camera registra tutto ciò che passa davanti al suo obiettivo e l’immagine riprodotta assume valore per lo stesso atto di riprodursi all’infinito.
Un filo conduttore che, a conclusione del percorso, sembra trovare una sua legittimazione nelle 102 ombre evanescenti e imperfette dell’ultima sala, dove non esistono più un inizio e una fine.
Gemma Zaganelli
Parigi // fino al 7 febbraio 2016
Warhol Unlimited
a cura di Sébastien Gokalp e Hervé Vanel
MAM – MUSÉE D’ART MODERNE DE LA VILLE DE PARIS
11 Avenue du Président Wilson
+33 (0)1 53674000
www.mam.paris.fr
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