Pittura italiana. 50 anni di storia da Sperone Westwater
Galleria Sperone Westwater, New York – fino al 23 gennaio 2016. Trentadue artisti che hanno attraversato le tre principali correnti attive in Italia nella prima metà del Novecento: Futurismo, Astrattismo e Arte Concreta. Tutti riuniti nella Grande Mela.
L’arte italiana del Novecento è ormai una protagonista consolidata della scena newyorchese. Al Guggenheim, dopo la mostra sul Futurismo, si è recentemente inaugurata un’imponente antologica dedicata a Burri. Dall’altro lato della Quinta strada, al Metropolitan, i curatori stanno invece lavorando alla personale di Lucio Fontana, prevista per la primavera del 2017. E mentre le case d’asta fanno gli ultimi preparativi per gli appuntamenti autunnali, alla Galleria Sperone Westwater si inaugura una collettiva (dopo una sorta di prologo nella sede di Sent), molto ambiziosa, di 32 artisti che hanno attraversato le tre principali correnti attive in Italia nella prima metà del Novecento: Futurismo, Astrattismo e Arte Concreta. Lo sforzo del gallerista italiano, che non nasconde di conservare ancora una forte passione da collezionista, e della sua socia in affari, Angela Westwater, è quello di far riemergere questi protagonisti da una forzata e probabilmente ingiusta marginalizzazione rispetto a figure analoghe di altri Paesi.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Allemandi, con uno scritto di Maria Antonella Pelizzari, insegnante presso il dipartimento di storia dell’arte dell’Hunter College, nell’Upper East Side di Manhattan. Il suo saggio, dal titolo L’Utopia della pittura astratta italiana dal 1910 al 1950. Una storia controversa, è una narrazione ricca e appassionante delle teorie e delle vicende di un nutrito gruppo di astrattisti italiani che, nonostante le avversità storiche, intrecciano rapporti di scambio, proficui e paritari, con tutte le avanguardie europee. Le abbiamo rivolto alcune domande sulla mostra e sulla sua ricerca storica.
Secondo lei la produzione di questi artisti può riservare delle sorprese all’esigente pubblico newyorchese?
A New York ultimamente abbiamo visto molte mostre sull’Italia e questa, in particolare, viene dopo quella sul Futurismo, dove per la prima volta in America si è arrivati fino al 1944, consolidando la conoscenza di un linguaggio di avanguardia all’interno di un periodo molto ampio. C’è stata anche una mostra molto importante, Chaos and Classicism, curata da Kenneth Silver al Guggenheim, dove è stata proposta l’arte figurativa di Carrà, de Chirico, Sironi e altri, coprendo lo stesso arco temporale. Oggi c’è Burri al Guggenheim.
Con queste premesse, la mostra è sorprendente perché ci sono dei legami con il Futurismo, perché abbiamo Balla e Prampolini, e meno male che ci sono, perché altrimenti non ci sarebbero molti riscontri con ciò che il newyorchese finora ha visto dell’arte italiana. Un’altra mostra importantissima, per introdurre il pubblico americano a questa collettiva, e l’ho scritto all’inizio del mio testo, è quella che si è tenuta al MoMA con il titolo Inventing Abstraction, dove l’astrattismo italiano era presente con le Compenetrazioni iridescenti di Balla e le Parole in libertà di Marinetti, inserendosi in un discorso molto ampio e interessante che partiva dall’astrazione di Kandinsky, Delaunay, Mondrian, El Lissitszy.
Ecco, io spero che sia possibile fare il salto da quello che è il canone dell’astrattismo dell’arte internazionale a quello che si vede oggi da SperoneWestwater. Le sorprese sono tante. Anche per noi italiani, perché anche in Italia non ci sono state molte mostre di questo genere; ci sono state pubblicazioni, ma sono rare le mostre che hanno abbracciato questo ampio arco temporale, dal Futurismo al dopoguerra degli Anni Cinquanta. E poi i lavori che Gian Enzo Sperone ha selezionato mostrano un gusto nella scelta che è sorprendente. E quindi penso che la sorpresa per il newyorchese sarà enorme.
Nei progetti di questi artisti c’era solo utopia o anche concretezza, voglia di cambiare il mondo della comunicazione?
Il discorso dell’utopia è un discorso legato alla rivoluzione, legato a un modernismo che vuole rompere i canoni figurativi, che vuole cercare altri modi di comunicare. Questa rottura è ancora più evidente nel caso italiano, dove la tradizione figurativa è profonda; se noi pensiamo all’“italianità” della pittura italiana, non pensiamo all’astrattismo. Se guardiamo al Futurismo di Balla, che è diverso dal Futurismo di Boccioni, notiamo che si distacca da un canone, soprattutto americano, dove il Futurismo è ancorato al discorso figurativo cubista di Boccioni.
L’utopia diventa estremamente intrigante negli Anni Trenta a Milano, in cui trovi figure che hanno anche una utopia politica, come Attilio Rossi e Veronesi, al punto da spingere il primo a lasciare l’Italia perché antifascista. Ma Attilio Rossi parla a una cerchia di personaggi che sono anche fotografi, come Antonio Boggeri, grafici, come Modiano, pittori, come Veronesi e Soldati, che si incontrano negli stessi spazi. Anche se alcuni sono pittori tout court, hanno una consapevolezza enorme di ciò che viene pubblicato sulle riviste di avanguardia, sui libri della Bauhaus. In questo senso c’è una complessità.
L’utopia è l’utopia anche del modernismo, è l’utopia di Terragni, è l’utopia che leggiamo in tutti i libri di storia dell’architettura, di voler portare il linguaggio architettonico, e di conseguenza quello pittorico, in Italia, a questi livelli di grande chiarezza, purezza, di linee. E l’utopia prosegue nel dopoguerra come scontro nei confronti di un’ideologia semplicistica che pensa che la rivoluzione si fa dipingendo il popolo, i lavoratori.
Però questa utopia è anche concreta, concretissima, perché la forza di questa utopia, e di molti di questi artisti, è che si muovono tra tanti media differenti. C’è un discorso di comunicazione, di commistione di media che porta questi artisti a essere molto concreti, a progettare una pittura che va al di là della tela. Sicuramente Munari è un artista molto coinvolto in queste idee. Abbiamo i Negativi-Positivi, però sappiamo che queste idee erano anche estrapolate nello spazio. L’Arte Concreta di Max Bill spinge molti artisti, fin dagli Anni Trenta, a creare opere che hanno una funzionalità e quindi l’utopia è legata anche alla concretezza, a una nuova definizione dell’arte nella società.
Quali sono gli artisti, tra quelli in mostra, che meritano una maggiore indagine, uno studio più approfondito?
Da un punto di vista storico, i grandi esclusi sono Prampolini e Munari. Da questa mostra si capisce che hanno avuto una funzione estremamente importante. Prampolini, oltre a essere un grande artista, è stato un trait d’union fra l’Italia e l’Europa. Munari è importante per la sua consapevolezza, che io reputo molto di matrice Bauhaus, della necessità di un dialogo con quello che è il sociale, non a livello di politica semplice e aneddotica, bensì a livello di creazione di oggetti, di messaggi e di una rivoluzione della comunicazione visiva.
Certo non sono artisti facili, le tele sono piccole e a volte di difficile reperimento, gli oggetti sono effimeri, i loro lavori offrono spunti per una narrazione molto più complessa di quella statunitense di Alfred Barr, molto Boccioni-centrica, una narrazione che ha tenuto in disparte gli artisti che hanno lavorato negli anni del regime. I lavori di questi artisti consentono una visione diversa, meno scultorea e meno figurativa del Futurismo più noto e capito, e poi c’è una continuità temporale, che vede Prampolini coinvolto in mostre importantissime a Roma sull’astrattismo nel dopoguerra.
Possiamo valutare questi artisti per quello che hanno fatto senza confondere i risultati dell’estetica con quelli della politica?
Gli anni del regime sono complicati per le arti visive. Molti storici hanno dibattuto sull’atteggiamento pluralista del regime nei confronti delle avanguardie. È un punto che ho affrontato in varie parti del mio saggio. Per esempio, è sorprendente vedere artisti Bauhaus che fanno capolino a Milano, come Xanti Schawinsky che è collegato a tanta grafica del momento, dal ’33 in poi. Potremmo osservare che ogni artista ha una storia personale rispetto al fascismo al potere, ad esempio un Tato, sappiamo benissimo, che era estremamente pro-regime, altri artisti, invece, erano completamente antiregime, Veronesi era uno di questi, Soldati e molti di loro saranno poi partigiani ed entreranno nella resistenza. È un dato di fatto che tutti si misurano con il fascismo, anche a Milano. Leggere di una corrispondenza tra Gropius e Ghiringhelli in cui si dice che si vuol portare la Bauhaus in Italia sul lago di Como, e poi il discorso non funziona perché Mussolini la vuole a Roma, questo ti fa pensare, no? Milano era vicino alla Svizzera, era un ambiente di grandi imprenditori, da Olivetti in poi, un luogo estremamente aperto all’Europa. Como diventa una nicchia molto fascista, ma al tempo stesso ha un’imprenditoria che è interessatissima a portare il modernismo in Italia.
Secondo me non si deve dimenticare che c’è il fascismo, è un dato di fatto imprescindibile, con il quale l’artista si misura. Ma il regime riflette un modernismo complicato, di chi crede in queste idee così radicalmente e cerca di configurarle con un regime autoritario ma che al tempo stesso lascia spazio a molte espressioni. Prampolini è una figura complessissima per questo motivo, perché lo troviamo con gli aeropittori futuristi e lo troviamo con Mondrian, van Doesburg, Kandinsky. Si può esulare dal discorso politico ma il fatto è che questi lavori sono una risposta molto complessa a quello che questi artisti vivevano quotidianamente. Analoghe considerazioni si pongono nel dopoguerra, dove l’artista continua a misurarsi con l’ideologia.
Sembra quasi che la storia da lei raccontata costituisca il prologo di una vicenda complessa ancora tutta da ricollegare, per esempio al secondo dopoguerra, alla nascita del design industriale, al boom economico. Insomma, ci sarà una seconda mostra che proseguirà questa prima indagine?
Sarebbe bellissimo misurarsi con artisti come Balla, Prampolini, Munari, Radice e poi ragionare sul secondo dopoguerra. Sarebbe affascinante pensare a una mostra potenziale che fa vedere come fin dagli Anni Dieci certi artisti stessero già pensando oltre la superficie della tela, a come portare queste idee nel teatro, a livello di installazione, di architettura, di spazio tout court, idee che trovi in alcune sculture, sicuramente nelle Macchine Inutili di Munari e nelle forme plastiche di Prampolini.
Sarebbe molto interessante poter inserire questi personaggi, come suggerisci, all’interno di un discorso che ci porta al disegno industriale che nasce nel dopoguerra. Sarebbe una mostra molto più ampia. Se si selezionassero alcuni artisti da questa mostra, approfondendoli, si potrebbe individuare un’importante continuità con lavori più recenti, osservando che le premesse sono da ricercare proprio nella storia di questi artisti.
Luca Zaffarano
New York // fino al 23 gennaio 2016
Painting in Italy 1910s-1950s: Futurism, Abstraction, Concrete Art
a cura di Gian Enzo Sperone
SPERONE WESTWATER
257 Bowery
+1 (0)212 9997337
[email protected]
www.speronewestwater.com
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