Specchi e identità. La Biennale di Singapore
SAM, Biennale di Singapore – fino al 26 febbraio 2016. La rassegna asiatica punta l’attenzione su dinamiche fortemente attuali, come la questione identitaria e la dialettica fra individuo e collettività. Chiamando a raccolta più di sessanta artisti.
SOGGETTI E IDENTITÀ
La ricerca e l’indagine sull’evoluzione della propria identità sono un compito tanto arduo quanto imprescindibile per lo sviluppo dell’uomo e delle comunità in cui vive, soprattutto in un periodo storico segnato da enormi movimenti migratori, che, da una parte, continuano a marginalizzare i residui delle ideologie e dei principi nazionalistici e, dall’altra, pongono in forma rinnovata i quesiti riguardo le soggettive identità culturali e il modo di immaginare il futuro delle nostre società. A queste problematiche si è ispirato il team curatoriale che ha organizzato la quinta edizione della Biennale di Singapore – significativamente intitolata An Atlas of Mirrors – cercando di dare rilievo a tematiche estremamente attuali e offrendo la possibilità a diverse decine di artisti di interagire e confrontarsi con argomentazioni che coinvolgono tanto l’individuo quanto la collettività. Con questi obiettivi, la mostra è stata strutturata in nove “zone concettuali”, ognuna delle quali ha proposto agli artisti invitati una diversa lente come strumento di analisi per tentare una mappatura della nostra epoca.
TRANSIZIONI E FALLIMENTI
Una personale mappatura del transitorio è stata realizzata da Melissa Tan – nata e attiva a Singapore – che, tramite sculture di carta o metallo, ritagliate a mano o con il laser, ha cercato di tradurre la continua espansione del paesaggio urbano di Singapore e delle aree rurali limitrofe alla città. Attraverso le sue opere, Melissa Tan ricodifica il linguaggio sia dei luoghi in cui è evidente l’intervento dell’uomo sia degli ambienti naturali, ottenendo una poetica impressione del passaggio del tempo nei paesaggi che caratterizzano Singapore. La continua misurazione della propria identità e delle proprie capacità ricorre nella video-performance Enter the parallel world, realizzata dall’artista sino-malese – attivo a Roma dalla fine degli Anni Settanta – H.H. Lim. Attraverso due schermi, esposti come grandi specchi all’ingresso del museo di Singapore (SAM), l’immagine dell’artista in piedi su di un pallone da basket si pone di fronte agli spettatori che stanno per iniziare il loro percorso all’interno della mostra. Se nel primo video – proiezione della performance 60 chili circa di saggezza – Lim rimane in equilibrio sul pallone per una trentina di minuti, nel secondo lo stesso artista cade rovinosamente al suolo, manifestando il fallimento di quella ricerca di saggezza che potrebbe essere allenata solo cercando un’indissolubile armonia tra le abilità motorie del corpo e le capacità della mente. In questo caso Lim ha evidenziato il confronto tra la ricerca di un difficile, se non impossibile, equilibrio e il conseguente fallimento che emerge nella rappresentazione della caduta. Ciò che resta è lo sforzo prodotto nel tentativo di misurare e superare i propri limiti, un’energia spesso destinata all’insuccesso; ma è proprio in questa tensione che può essere rintracciata la poesia della storia dell’uomo.
IL VALORE DELLA MEMORIA
La memoria collettiva e individuale sono state rievocate dall’opera Dislocate di Bui Cong Khanh, una struttura che a un primo approccio sembra replicare le tradizionali costruzioni abitative in legno cinesi o vietnamite, ma che, a uno sguardo attento e ravvicinato, si rivela come una grande installazione di sculture lignee ricca di impressioni, di nostalgia, di smarrimento e di desiderio. Questa scultura monumentale preserva narrazioni familiari e personali, nazionali e universali attraverso la combinazione di tecniche artigianali di origine cinese con l’identità culturale e iconografica vietnamita, mettendo in luce la tensione sociale e geo-politica esistente tra paesi come la Cina e il Vietnam. In simili lavori si riscontra una volontà di sintesi tra l’elemento soggettivo e quello collettivo che altri artisti hanno esplicitato attraverso il riutilizzo di oggetti comuni di varia natura. Subodh Gupta, con Cooking the world, ha decontestualizzato degli utensili da cucina per poi reintegrarli nella dimensione creativa. Questa reintegrazione serve all’artista per evocare l’idea dell’enorme processo produttivo e del rovinoso consumo che caratterizza la società globalizzata; così il cibo, in questo caso, oltre a essere individuato come elemento costitutivo di familiarità e comunità, si delinea come fonte di conflitto a causa delle modalità del consumo e delle “migrazioni” del cibo stesso, che, se da una parte generano eccesso ed abbondanza, dall’altra provocano mancanza e privazione. Gli oggetti che invece Ade Darmawan ha trovato, sia a Singapore sia in Indonesia, e decontestualizzato vengono trasformati in nuove lenti per osservare la trasformazione politica sociale ed economica dei territori, come “memoria-archivio” per le storie minori che, quando reintegrate, acquisiscono valore storico grazie all’impatto comunitario sulla società. Con Rubbish di Kentaro Hiroki la spazzatura e i detriti diventano segni identitari che permettono di raccontare la storia della comunità in cui questi rifiuti vengono raccolti, oltre che un gioco di riflessione sul valore stesso degli oggetti, specialmente in un luogo come Singapore, in cui esiste una marcata cultura della pulizia. Ma, con l’opera di Hiroki, ciò che è nascosto non è necessariamente scomparso. Allo stesso modo, per dirla con Deleuze, un’isola non smette di essere deserta solo perché abitata. Questo sembra essere il riferimento di Map Office – composto dal duo Laurent Gutierrez e Valérie Portefaix – con l’opera Destert Island, in cui è chiaro il riferimento all’omonimo libro del filosofo francese. Mentre in questo caso la mappatura è stata realizzata tramite la produzione di cento specchi che rappresentano altrettante isole, con le relative coordinate, selezionate in base al significativo ruolo da queste giocato nella formazione di una coscienza e identità globale, la serie di mappe disegnate da Qiu Zhijie evidenziano un approccio diverso, quasi enciclopedico, mirando a fondere in sé risultati di studi a carattere storico, filosofico, mitologico e scientifico.
TRA STORIA E MITOLOGIA
Anche nell’opera di Deng Guoyuan, Noah’s Garden II, si fondono storia e mitologia in un progetto site specific, in cui un ambiente floreale artificiale germoglia all’interno di un labirinto di specchi. Qui si palesa una perdita della soggettività in un mondo surreale, dove la linea che demarca il reale e l’artificio si annebbia. Attraverso i colori della flora, l’artista ripensa e ristabilisce la classica codifica dei colori utilizzati nelle mappature dei territori, mettendo in dubbio la stessa validità e accuratezza della loro realizzazione. La Biennale di Singapore 2016 è partita proprio con l’esigenza di riconsiderare la stessa idea di identità tramite i diversi punti di vista degli artisti che, in modi differenti, hanno proposto una visione e, insieme, una delle possibili mappe che potremmo utilizzare per osservare nuovamente il nostro presente, accogliendo la volontà, la necessità, e forse l’opportunità offerta da un grande evento d’arte internazionale di confrontarsi con il resto del mondo, con un atlante di specchi per osservare se stessi e rinnovare la propria, seppur transitoria, identità.
Tiziano De Angelis
Singapore // fino al 26 febbraio 2016
Singapore Biennale 2016 – An Atlas of Mirrors
SINGAPORE ART MUSEUM
71 Bras Basah Road
www.singaporebiennale.org
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