Tra Arte e Esperienza, Capitolo V – “Globalizzazione, Multiculturalismo, Glocalismo”
Quinta e ultima puntata del documentario Rai che indaga gli ultimi cinquant'anni di storia dell'arte, passando in rassegna i principali artisti e movimenti del contemporaneo. Un focus conclusivo dedicato al periodo a cavallo tra i due secoli, tra globalizzazione, glocalismo, post human e multiculturalismo
“Tra Arte e Esperienza” – 2009
cap V – ‘Globalizzazione, Multiculturalismo, Glocalismo’, 29′
autore: Jade Vlietstra
regia: Tayu Vlietstra
creative: FF fusionefilm
produzione: Rai Educational – ‘Magazzini Einstein’
Una collezione di piccoli cammei storico-critici, per ripercorrere, tra foto d’archivio, filmati d’epoca, interviste, testimonianze, racconti, la parabola dell’arte contemporanea, dal dopoguerra fino agli anni Novanta. Artisti, opere, movimenti, correnti, teorie estetiche: il best of di cinquant’anni di storia dell’arte, prima sugli schermi Rai, adesso su Artribune Television.
Ultima puntata, ultimo scorcio di secolo e uno sguardo ai primi guizzi del millennio che inizia, gudati dai commenti autorevoli di Pier Luigi Tazzi, Germano Celant, Achille Bonito Oliva, Angela Vettese.
Definitivamente archiviato il periodo dei conflitti tra Est e Ovest del mondo, radicatosi il fenomeno della globalizzazione, esplose la grandi economie internazionali, con i Paesi asiatici che spingono verso al conquista dei mercati, lo scenario cambia e con lui cambiano i linguaggi creativi e le urgenze alla base della ricerca degli artisti.
L’avanzata della Cina è forse il caso più eclatante di quest’ultimo ventennio. L’asse si sposta dall’Occidente verso i paesi dell’Est e la cultura dominante non è più quella euro-americana: il mondo è un grande arcipelago dai confini elastici e cangianti, il potere cercare nuovi luoghi di presidio, nuove praterie da colonizzare.
L’ibridazione tra i codici orientali e quelli occidentali è una chiave che molti grandi artisti cinesi, giapponesi, coreani, indiani, scelgono come via maestra.
Nel 1993 il festival dell’Arte di Hong Kong ottiene un successo straordinario e la Biennale di Venezia del ’93, insieme alle Biennali di San Polo del ’93 e del ’95, consacrano definirivamente l’affermazione dell’arte contemporanea cinese a livello globale.
Mariko Mori, che nelle sue installazioni futuristiche ha unito spiritualità buddista e tecnologia avanzata, spiega: “Nel 1999 ho maturato innanzitutto l’idea di scissione della forma, scissione dei concetti, scissione delle idee, che stanno gradualmente evolvendo nel tempo. Noi viviamo la nostra vita quotidiana, siamo inseriti nella nostra struttura sociale alla quale si può accedere soltanto come individui. Ho pensato che lasciarci tutto alle spalle fosse il modo migliore per sradicare i preconcetti dalla nostra mente, perciò nasce l’idea del viaggio e dell’Ufo, che in realtà è la metafora di un viaggio mentale”.
E poi, Chen Zhen: “Oggi giorno abitiamo un mondo aperto, talmente aperto che non siamo neanche più obbligati a scegliere; nel mio lavoro e nel mio pensiero non ho mai insistito sul dover scegliere, piuttosto che la necessità di scegliere mi interessa la possibilità di ibridazione: posso permettermi di attingere sia dalla cultura occidentale che da quella orientale e prendere ciò che sta tra l’una e l’altra”.
I russi Ilya ed Emilia Kabakov, trapiantati a New York, lavorano intanto sull’idea di installazione totale e sull’ipotesi di una città utopica: “Questa città è quella che sognano tutti da tanto tempo, probabilmente dall’origine stessa della razza umana; se osservi la letteratura, l’arte, i sogni umani e le fantasie del passato, trovi sempre una città utopica in cui le persone cercano di andare avanti, di immaginare, di fare progetti.”
Luoghi del possibile, oltre il concetto di limite geografico, coltivando la differenza come risorsa e come spunto per un grande racconto globale: il viaggio, l’iper-comunicazione che spezza i limiti di spazio e tempo, la tecnologia, la fusione tra le culture, i grandi movimenti che agitano i sogni, le paure, i desideri delle persone, da un capo all’altro del mondo.
Video e cinema acquistano in questi anni una loro valenza forte, con artisti come Bruce Nauman, attivo fin dalla fine degli anni ’60, o come l’elvetica Pipilotti Rist, che concepisce la videoarte come possibilità per generare flussi visivi leggeri, immateriali, sovrapposti, interattivi: la sua è una indagine sull’universo del genere, della sessualità e della psiche femminile, condotta con straordinaria energia erotica, tattile, onirica e ironica.
E poi Bill Viola, indiscusso maestro del genere, che sempre più va sviluppando un immaginario denso di commozione e di sensibilità spirituale ed empatica: “Credo che il mondo oggi sia in crisi, credo che la nuova generazione, l’arte della generazione contemporanea, sia molto forte sotto l’aspetto morale ed etico, quello della compassione per gli esseri umani”.
Ma il concetto di “umano”, tra gli anni Novanta e gli anni Zero, cambia radicalmente. Messo in discussione, capovolto, indagato con crudeltà e con rigore, spesso risente della lezione della body art, tra provocazione e messa in discussione del limite. Dunque, non sono solo i limiti geografici a venire dialettizzati e ridiscussi, ma anche quelli del paesaggio corporeo.
Senza l’attenzione al mondo dell’inconscio e della nevrosi, che caratterizzò la body art negli anni Sessanta, e senza quello spirito di contestazione sociale e di rottura dei tabù di cui era pregno quel periodo storico, il post human lavora col corpo ma secondo nuove direttrici. Parole d’ordine: ibridazione, tecnologia, cibernetica, transgender, manipolazioni genetiche, chirurgia plastica, virtualità. L’identità muta, col mutare dei corpi stessi. Anche qui l’estetica del viaggio e dell’utopico è dominante, ma lo è sul piano delle dinamiche identitarie e fisiche. Tra le figure di maggior spicco quella di Matthew Barney con il suo Cremaster, ciclo di cinque film che esplora i processi creativi attraverso una complessa e originalissima simbologia legata al mondo della sessualità, dell’istinto, del rapporto tra maschile e femminile, dell’incastro tra la vita e la morte.
La morte: un tema ricorrente, tanto quanto quello della sessualità e, dunque, della vita. Il grande flagello dell’Aids, che a partire dagli anni Ottanta ha dominato le nuove generazioni – insieme ad altre paure figlie di questo tempo, una su tutte quella del terrorismo – contribuisce ad alimentare la sensibilità per il tema della caducità e della fine.
Direttamente connesso è il riferimento, da molti artisti cavalcato, al mondo delle medicine, della malattia, della biologia, dello studio di corpi, feti, cadaveri, animali in formalina. Damien Hirst è uno dei maggiori rappresentanti di questo filone: “Mi piacciono le medicine, perché sono la soluzione ai problemi. Possono rappresentare un nuovo Dio. Una volta pregavamo, oggi prendiamo delle pillole. L’aspirina o il paracetamolo diventano come l’eucarestia per me, hanno questa perfezione bianca che si suppone sia il corpo di Cristo. Vai in chiesa, prendi l’eucarestia e muori in ogni caso. Invece prendi la pillola di una casa farmaceutica e puoi vivere”.
Tra gli italiani si afferma su scala internazionale Maurizio Cattelan, con la sua ironia giocosa e pungente, col suo senso del paradosso e della trasgressione ludica, spinto dal desiderio di sovvertire meccanismi e cliché del sistema sociale, prendendo spesso di mira quel sistema artistico a cui egli stesso appartiene: “Io posso solo dire che i miei lavori partono da delle immagini molteplici, pescate da non so dove: inizio a pensarci, cerco di attaccarle e di limarle finché sono semplici ma allo stesso tempo aperte, ricche di tante possibili letture. Io voglio solo offrire punti di vista e angolature differenti per osservare il mio lavoro; può darsi che sia un trucco per trovare una personalità. Il mio grande problema infatti è che io non possiedo una personalità e devo trovare dei modi per sopravvivere. Devo quindi cambiare idee e punti di vista, continuamente”.
Nella totale cancellazione di gerarchie tra culture e linguaggi creativi, si radicano progressivamente ricerche che indagano il concetto di glocal, tra globalizzazione e genius loci, ma anche temi quali la sostenibilità, il nomadismo, l’ecologia, il paesaggio, la leggerezza, l’architettura radicale e l’urbanistica visionaria, le nuove forme di mobilità. Tra le moltissime figure significative ci si sofferma su quelle di Massimo Bartolini, Loris Cecchini, Nicola Uzunovski, Christiane Löhr, Wolfgang Laib, Lucy & Horge Horta.
A chiudere sono le parole di un grande vecchio, parole di presagio, nutrite di consapevolezza e di straordinarie intuizioni. Lucio Fontana, nel 1966, in una lunga conversazione con Carla Lonzi diceva: “Siamo convinti che nulla verrà distrutto del passato, né mezzi, né fini. Siamo convinti che si continuerà a dipingere e scolpire anche attraverso le materie del passato. Ma siamo altrettanto convinti che queste materie saranno affrontate e guardate con atri mani e altri occhi, e saranno pervase di sensibilità più affinata. Con le risorse della tecnica moderna faremo apparire nel cielo forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose, trasmetteremo pe radio-televisione espressioni artistiche di un nuovo modello…”.
– Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati