Tutte le performance del Padiglione Italia. Grilli, Maloberti, Mauri, Xhafa: liturgie di gesti, suoni, azioni
Tante installazioni, ma anche diverse performance. È la cifra preponderante del Padilgione Italia di questa Biennale. In un piccolo montaggio video qualche minuto di ognuna delle quattro azioni performative
Quattro performance su quattordici opere. Una media niente male, per un linguaggio difficile, che non è tra i più diffusi. Il Padiglione Italia, con il suo “arcipelago” di coppie eterogenee e liberamente assortite, fa una scelta di campo e predilige progetti installativi o, per l’appunto, performativi. Non c’è la scultura, tradizionalmente intesa, non c’è la pittura – a parte la grande e bella opera ambientale di Marco Titelli, che però prende appunto la forma di una installazione – e non c’è quasi la fotografia, fatta eccezione per la stanza centrale dedicata a Luigi Ghirri, che sacrifica una lettura intima delle piccolo foto di paesaggio, optando per una soluzione avvolgente ma troppo monumentale.
In definitiva, la relazione con lo spazio assume in “vice versa” una connotazione dinamica, in qualche caso processuale, spesso imponente e maestosa (vedi il cubo per cercatori d’oro di Piero Golia, il cupolone di Flavio Favelli, l’archivio calpestabile di Elisabetta Benassi o la tragica architettura concettuale di Francesco Arena).
Due le tipologie di performance presenti: da un lato un più classico impianto teatrale, in cui l’opera è offerta al pubblico come episodio scenico, dall’altro una prolungata ricerca di interazione con lo spettatore/attore, senza il quale l’azione non potrebbe avere luogo. Quest’ultimo è il caso di Parallel Paradox, progetto inedito di Sislej Xhafa: la scena, qui, altro non è che un albero, individuato nel giardino posteriore su cui si affaccia il Padiglione; tra i rami e le fronde alloggia un barbiere, pronto ad accogliere i suoi clienti, invitati ad arrampicarsi con tanto di imbracatura in dotazione. Nell’inedita barberia bucolica si consuma il rito del taglio e dell’acconciatura, come se tutto fosse al suo posto, assolutamente normale. Un tentativo di alterare le logiche dell’ovvio e del banale, tra ironia ed esprit ludico. L’effetto straniante però non irrompe e il tutto tende a insistere sul piano del gioco, con esito poco convincente.
Si affida a un solo performer Fabio Mauri, di cui viene qui ripresentata una storica opera del 1973: è il momento più politico del Padiglione, con una calzante giustapposizione tra il maestro e il giovane Arena. Ideologia e Natura mette al centro una donna, vestita con la divisa fascista di Piccola Italiana, intenta con lentezza quasi aulica a togliersi di dosso abiti e accessori, finendo col restare completamente nuda, per poi rivestirsi daccapo, in un loop ossessivo e disordinato: spoliazione metaforica e potentemente retorica, che drammatizza il conflitto tra il naufragio e la persistenza dell’impalcatura ideologica, laddove la genuinità del singolo si contrappone a certe vecchie logiche di appiattimento collettivo mediate dal potere. Tema caldo negli anni Settanta, decisamente meno attuale adesso, ma comunque denso di significato.
Tutt’altra atmosfera per Marcello Maloberti. Teli da mare sventolati su un monolite marmoreo come bandiere, mentre un esercito di giovani peformer maneggia tavolini smontabili di legno grezzo tutt’intorno al grande totem, tra meloni giallissimi e cinture borchiate. Coreografia intrisa di sacro e profano, assemblando frammenti di una identità nazionale e culturale sfilacciatasi nel tempo. Buone le intenzioni, non proprio all’altezza il risultato, sfilacciatosi anch’esso nella liturgia complessiva, che non tiene l’emozione.
Francesca Grilli, infine, punta sul potere del suono, chiedendo a una performer di interagire vocalmente con un rivolo d’acqua che insiste su un’enorme lastra di ferro. E mentre la superficie viene scalfita lentamente, consumandosi, la pasta vocale si fonde col rumore che ne viene, dilatandosi e modulandosi in relazione all’intensità del gocciolio. Parole non dette, tra armonie ineffabili di tempo e materia. Quello che forse l’imponente dispositivo non arriva bene a mettere in circolo è la poesia. Dispersa, a tratti.
Ad ogni modo, la scelta di Pietromarchi di dare ampio spazio alla performance si rivela profetica. A vincere il Leone d’Oro come miglior artista della 55° Biennale di Venezia sarà infatti Tino Sehgal, in verità più convincente a dOCUMENTA che in Laguna, ma sempre abile giocoliere di gesti ed emozioni; uno capace di costruire con niente piccoli spazi di commozione condivisa, fra teatro, memoria e frammenti d’esistenza.
Helga Marsala
[immagini video di Valentina Grandini]
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