Attorno al Palazzo Enciclopedico. Un dibattito sulla Biennale di Massimiliano Gioni
55° Biennale di Venezia. La registrazione integrale di un confronto tra artisti e critici italiani, a Roma, per evidenziare punti di forza, complessità e debolezze del progetto di Massimiliano Gioni. La prima tavola rotonda sul tema, in Italia, dall'opening del Palazzo Enciclopedico
Villa Carpegna – Fondazione La Quadriennale di Roma
9 luglio 2013 – ore 21
Biennale di Venezia, un mese e mezzo dopo. Opening sempre affollatissimo, lo scorso maggio, e un’atmosfera particolarmente vibrante, positiva. Diciamo pure entusiasta. Perché sì, è abbastanza incontestabile: la Biennale di Massimiliano Gioni è piaciuta. Ad alcuni di più, ad altri di meno, chi con qualche dubbio residuo, chi assolutamente sedotto, ma nel complesso l’esperimento del Palazzo Enciclopedico ha funzionato. E anche gli scettici, alla fine, non hanno potuto non ammettere che – critiche a parte – lo stimolo a riflettere, a farsi qualche domanda in più, a lasciarsi coinvolgere, è stato forte. Nella piattezza del momento, un segnale che è già un successo.
Dibattito dunque immediatamente decollato, quello attorno alla 55° Esposizione d’Arte di Venezia, fin dai giorni del’inaugurazione e poi subito dopo, nell’immediata overdose di articoli e approfondimenti; per proseguire, ancora adesso, con una bella discussione corale, tenutasi a Roma il 9 luglio, su iniziativa della Quadriennale. Un incontro che mancava, e che nella distanza di un tempo lungo e di una riflessione a freddo, ha provato a tirare le somme. Rilanciando questioni fondanti, sula scia di prospettive possibili.
Il talk, primo vero momento di confronto pubbico sul tema, in Italia, vedeva riuniti Cecilia Canziani, Guglielmo Gigliotti, Alfredo Pirri, Bartolomeo Pietromarchi, Paola Ugolini, Luca Lo Pinto, Stefano Chiodi, Elena Del Drago, con Ludovico Pratesi nel ruolo di moderatore.
Un’ora e mezza di domande, visioni critiche, analisi della scena attuale e ricognizioni storiche, echi, rimandi, raffronti, suggestioni. Un movimento di sguardi incrociati, in cui provare a leggere l’evoluzione delle cose: il ruolo di una biennale, quello dei musei, le nuove estetiche e le vecchie dimensioni politiche, il pubblico, la critica, l’artista e lo spettatore, e un sistema che cambia, un’Italia che si ferma, un’idea dell’arte da costruire, monitorare, nutrire di intuizioni, nel tempo della crisi che annuncia, forse, prossime rivoluzioni.
Passata per bene al setaccio, la Biennale progettata da Gioni viene ad esempio “salvata” da Pirri, per quel suo tentativo di porre una questione chiara intorno al ruolo odierno dell’opera d’arte rispetto alla realtà, al trasmutare dei sistemi e degli eventi, e alla determinazione di una consapevolezza: può un’opera, in quanto attivatore di senso, mutare il mondo? Può essa diventare forza magica, porta, passaggio? Gioni prova a rispondere positivamente e lo fa mettendo in campo autori come Jung o Steiner. Collacandosi, secondo l’intensa analisi di Pirri, sulla linea tracciata già ne 1960 da Merleau Ponty ne L’occhio e lo spirito, quando il filosofo legava la questione della visione a quella del corpo e dei corpi: “… Non quel corpo possibile, che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale, che chiamo mio, la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni. Bisogna che insieme al mio corpo si risveglino i corpi associati, degli altri”. Questa Biennale parlerebbe dunque ai corpi e attraverso di essi, in una pluralità di prospettive non convenzionali che possano condurre a una dimensione magica, evocativa, di senso e di comunità, come in un rito di passaggio. Il risultato? Non del tutto centrato. Alla fine, dentro questa grande macchina dell’evocazione, è l’opera a mancare, probabilmente. “Non ne ricordo nemmeno una”, conclude Pirri. “Cosa che forse accade in tutte le grandi mostre. E allora la domanda è: che cos’è una grande mostra?”.
E nel dibattito che si complica e si arricchisce, Stefano Chiodi, a proposito di mostre e di musei, suppone che questa Biennale racconti, come tante grandi kermesse internazionali d’oggi, un nuovo modello destinato a imporsi, con forza: mentre i musei si “mostrificano” e le mostre si “museificano” progressivamente, si profila un ibrido tra il vecchio spazio istituzionale dedito alla conservazione e le tipiche esposizioni orientate alla sperimentazione. Una terza via, che probabilmente è il futuro. Il modello di questa mostra veneziana, secondo Chiodi? Tutto partirebbe da Harad Szeeman, dal suo progetto utopico di rifondazione e ricapitolazione della civiltà moderna, rileggendo “contropelo” la storia del modernismo e cercando una continuità culturale europea dopo il disastro del nazismo. Un progetto che Gioni avrebbe in qualche modo ripreso, ma depoliticizzandolo e dunque depotenziandolo, se pur con grande finezza.
Gioni, al centro del dibattito, sempre. Un curatore troppo presente per alcuni, regista di un’architettura espositiva iper controllata ed invasiva, da cui le opere scompaiono in favore del suo pensiero; e un curatore troppo assente per altri, laddove ad avanzare è il racconto, descritto dagli outsider e dai non-artisti, non vagliati dalla critica.
E mentre Luca Lo Pinto, avanzando le sue riflessioni, cita su questo punto Boris Groys (“Il curatore può esporre ma non ha l’abilità magica di trasformare cioè che non è arte in arte attraverso l’atto del display. Questo potere secondo le convenzioni culturali correnti appartiene solamente all’artista”), parte un secondo giro, dove si parla anche di scontro tra tecnica e utopia, di scena artistica e culturale in Italia e, inevitabilmente, di Padiglione Italia…
Una conversazione con non pochi spunti interessanti, sicuramente da ascoltare. Mettersi comodi dunque, e magari prendere qualche nota. Per chi non c’era, Artribune Television c’è. E il dibattito prosegue.
– Helga Marsala
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