Pubblicità, lo stile italiano: spot mediocri, per spettatori mediocri
Gli Italiani? Secondo i nostri pubblicitari sono un po' lenti. Tanto che per farli innamorare di un prodotto occorre raccontaglierlo nel modo più banale. Ed ecco che il settore, in Italia, è tra i più scarsi al mondo. Un'analisi approfondita e due spot a confronto: uno italiano e uno brasiliano. Indovinate quale vince?
All’ultimo Festival Internazionale della Creatività di Cannes la pubblicità made in Italy ha vinto 19 Leoni e un Grand Prix, stabilendo il record di trofei vinti in un’edizione di Festival.
Tutto bene dunque? Insomma. Chele eccellenze creative italiane siano ancora un’oasi nel deserto è un fatto: in un Paese come il nostro la percentuale di campagne che comunicano in modo brillante e sorprendente è davvero molto bassa rispetto alla media internazionale. Del resto sono proprio altri Paesi a beccarsi il maggior numero di trofei nelle manifestazioni dedicate alla pubblicità. Ma perché l’Italia, che per secoli è stata la culla della creatività, nel campo della storia dell’arte, del design, della letteratura, non ha lasciato la sua impronta anche nel mondo dell’advertising? Mai stata un modello, l’Italia. Mentre oltreconfine le Tv, i giornali, le radio, i siti web pullulano di spot ironici, spiazzanti, geniali, capaci di lasciare a bocca aperta il pubblico. E nel Bel Paese? Le boccehe restano spalancate, per lo più, a causa della noia. Spot soporiferi, banali, persino sciocchi.
Del tema si è occupato di recente Giuseppe Mazza, direttore creativo dell’agenzia Tita e direttore di Bill, una delle più importanti riviste di settore. E proprio sul nuovo numero del suo trimestrale uscirà a breve un articolo dal titolo Gli italiani non capiscono. Noi, abbiamo trovato un’anticipazione in rete. Il succo? La colpa di tanta mediocrità è di una classe dirigente, pubblicitaria e aziendale a dir poco mediocre, che giudica lo spettatore poco capace di comprendere e decifrare messaggi troppo creativi e originali. Insomma, gli italiani sarebbero poco svegli, destinati a sorbirsi spot poco brillanti.
Un esempio? Ne abbiamo scelti due, nel marasma di spot prodotti di recente. Uno italiano e uno brasiliano, messi a confronto: stessa tipologia di prodotto, per un risultato del tutto differente. L’accostamento è impietoso.
Spot Anador di Lowe Brasile, vincitore di un Gold Lion a Cannes. Si pubblicizza un prodotto farmaceutico contro il mal di testa; il concetto, che poi è un insight reale e molto forte è: “tutto si trasforma in un mal di testa, quando hai mal di testa”.
Il prodotto non si vede mai, se non alla fine e solo per quattro secondi. Tutto il resto è creatività pura, giocata sull’idea di un impossibile rewind e basata su un concetto esposto in modo intelligente: ecco come, in una condizione di malessere, gli stessi elementi banali che fanno parte della vita di un uomo possono causare ulteriore malessere. La realtà cambia, il mondo capovolto. La soluzione per rimettere le cose a posto? Una pasticca di Anador, naturalmente…
Spot Moment, agenzia Armando Testa. Qui il tema “mal di testa” sbuca fiori fin da subito, come per dire: “Il pubblico deve capire al volo qual è il problema che andiamo a risolvere”. Tutto si sviluppa nel modo più banale possibile: un ragazzo sta male, una ragazza tira fuori la pillola che lo cura. E poi la chicca, il nome di lei richiama il nome del prodotto: Molly, porge all’amico un “Moment – capsule molli”.
Dov’è la creatività? Quale concetto c’è alla base? Cosa si offre in più rispetto a una descrizione didascalica?
Immaginiamo la risposta che l’AD dell’azienda che produce il Moment avrebbe potuto dare, se lgi si fosse prospettato uno spot come quello brasiliano: “Troppo contorto. Abbiamo bisogno di una comunicazione più diretta. La gente non ci arriva. E il prodotto si vede poco”. E così la qualità scende e l’efficacia pure.
Non aggiungiamo altro e vi lasciamo leggere direttamente l’approfondita analisi di Mazza. Ma non prima di aggiungere un paio di parole di David Ogilvy, uno dei più famosi pubblicitari della storia che, proprio rispondendo a coloro che insinuavano una scarsa capacità di comprensione da parte del pubblico, così disse: “Il consumatore non è uno stupido. Il consumatore è tua moglie”.
“L’Italia appare come una terra inospitale per l’advertising. Sintesi, semplicità di pensiero, umorismo leggero, imprevedibilità, orrore dei cliché e del ricatto sentimentale: nessuna di queste caratteristiche sembra appartenerle, e l’elenco potrebbe continuare.
C’è però un aspetto in particolare che separa questo paese dalla buona pubblicità, e non solo da quella. L’idea di pubblico. Per capirlo, basta osservare con attenzione nei break pubblicitari nostrani la lampante differenza tra gli spot prodotti all’estero e quelli invece realizzati in Italia. I primi sono spesso eleganti, di ottima fattura, non di rado divertenti, mentre dei secondi, quelli locali, quasi sempre si può dire solo il peggio o sbadigliare.
È evidente, sono stati pensati per platee diverse. Le campagne estere presuppongono cioè un pubblico del quale si teme il giudizio, il cui consenso va guadagnato. La pubblicità prodotta in Italia, invece, sembra pensata per un pubblico privo di strumenti, una massa passiva che non chiede originalità. Quello italiano risulta un pubblico che non capirebbe.
Non c’è pubblicitario italiano che non abbia incontrato sul suo cammino questo dogma, asserito nelle aziende e nelle agenzie come verità incontestabile, anche se in nessun altro paese occidentale si verifica questo continuo evocare casalinghe di Voghera, sciure marie e compatrioti minus habens.
Gli italiani non capiscono. Ecco la vera ideologia della nostra classe dirigente, l’unica nella quale tutti credano, che accomuna cioè non soltanto la stragrande maggioranza dei comunicatori, dei decisori di linguaggio, ma chiunque arrivi a occupare un posto di comando.
È lì che nasce la grande impostura: a chiedere un così brutto spettacolo sarebbe il suo stesso pubblico, il quale non accetterebbe nient’altro e anzi, non vedete?, approva consumando. Sarebbero cioè gli italiani stessi, i mandanti.
Bugia. Se così fosse, l’attuale calo di consumi avrebbe dovuto provocare più di un cambiamento. Davanti a un pubblico in fuga si dovrebbero cercare nuovi linguaggi, almeno un cambio di registro. Invece niente, neanche ora che le cose vanno male. Una sordità che dimostra quanto davvero ci si trovi davanti a uno schema ideologico.
No, la pubblicità è fatta da chi la produce, non da chi la riceve. È fatta da chi la crea, la commissiona, la firma. La decadenza della réclame italiana è semplicemente colpa della sua mediocre classe dirigente, pubblicitaria e aziendale, aggrappata al credo di un’audience poco sapiens per giustificare la propria modestia.
Attenzione, però. La rappresentazione perenne di una massa italiana che non capisce, e soprattutto: della quale chi parla non è parte, ha permeato ormai l’intera scena pubblica e assume le forme più diverse.
Quando per esempio si arriva a dire che la pubblicità sessista induce alla violenza sulle donne, non si fa che perpetuare questo schema. Si intreccia cioè la sacrosanta protesta contro la mancanza di civismo di quelle campagne con la visione paternalistica di un pubblico debole, influenzabile da qualunque stimolo. Difendendolo, lo si accusa d’essere privo di senno.
Quando più in generale si denuncia la pubblicità come forma di manipolazione, non si fa che descrivere implicitamente gli italiani come creta plasmabile. Alla nostra réclame vengono sempre ricordati i suoi doveri pedagogici. Il che è comprensibile, ma rivela anche il vizio di fondo, l’idea di gregge. Mai che si invochi più fantasia, più immaginazione, più dialogo tra pari.
Il fatto è che la visione dell’italiano che non capisce ha una lunga storia di potere, e certo non riguarda soltanto la pubblicità. A ripercorrerla, si può anche finire in piena Controriforma, a quel popolo per l’appunto “considerato come un gregge da mantenere docile o come un fanciullo destinato a non diventare mai adulto” al quale fornire “una cultura premasticata e innocua” (Adriano Prosperi).
Oggi questa visione antica è egemonica, accettata a destra come a sinistra. Giustifica la spazzatura per le masse, ma anche la produzione di “qualità” autoreferenziale per le élite. Spiega comodamente il consenso per Berlusconi, che sarebbe ottenuto grazie ai mass media turlupinatori, così come motiva le battaglie per il controllo della Rai, a loro volta ritenute cruciali per agire sull’opinione pubblica.
Vive persino nei discorsi di Grillo: “Gli italiani guardano la televisione e le credono, non hanno anticorpi, pensano di vivere in una democrazia“. Esempio, quest’ultimo, di come l’ideologia dominante si sia ormai diffusa fino a toccare anche il singolo spettatore di un comizio, il quale, per il fatto stesso di ascoltare il comunicatore, in quel momento è tra chi capisce. Qui sì siamo all’unicità su scala mondiale. In quale democrazia la classe dirigente definisce i cittadini incapaci di essere liberi?
Durerà? Come spesso accade, il linguaggio pubblicitario lo saprà prima di altri. Ricordiamo un’intervista ad Ali Ali, grande firma dell’adv egiziano. Fu lui stesso a raccontare che prima della rivoluzione, quando proponeva le sue bellissime idee pubblicitarie, si sentiva rispondere dai clienti: “Il consumatore è troppo stupido, non capirà”. E le proposte venivano bocciate. Quando però un giorno arrivano i moti di piazza Tahrir, la caduta di Mubarak e le elezioni, all’improvviso, quegli stessi clienti davanti alle proposte del nostro pubblicitario rispondevano: “Attento, i consumatori sono più in gamba di quanto si pensi”. (Giuseppe Mazza – Bill n° 07)
Gabriele Di Donato
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