Studio Azzurro, storia di un incantesimo tra visibile e invisibile. Ricordando Paolo Rosa
La scomparsa prematura di Paolo Rosa ha lasciato un grande vuoto nella comunità dell'arte italiana. Artista raffinato, coltissimo, generoso, è stato l'anima del collettivo multimediale Studio Azzurro: un capitolo fondamentale nella storia del rapporto tra estetica contemporanea e nuove tecnologie
“Lasciando muovere le figure nello spazio, senza cornici di schermi, con l’occultamento dei macchinari e la proiezione di immagini su superfici la cui matericità è evidente, Azzurro recupera, con questi “ambienti sensibili”, qualità plastiche e pittoriche, e in generale, una sensualità dell’insieme emanata dai corpi, dai colori e dai suoni che ispirano un’aura rituale“. Così Valentina Valentini raccontava l’avventura straordinaria di Studio Azzurro, realtà assolutamente unica per la scena italiana degli anni Ottanta: si trattava di un saggio contenuto nel catalogo della retrospettiva “Ambienti sensibili. Esperienza tra interattività e narrazione”, a cura di Maria Grazia Tolomeo, ospitata presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma. Era il 1999, quattordici anni fa e ben diciassette dalla nascita del gruppo. Che era già, sulle soglie del nuovo millennio, una realtà solida, celebrata e riconosciuta in Patria, ma soprattutto – per assurdo, come nei casi migliori – oltre confine.
In quel primo quasi-ventennio di lavoro, Paolo Rosa, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi e Stefano Roveda avevano costruito molto di più di una bella carriera nell’arte. Più di una nutrita produzione di opere, di una collezione di mostre ed eventi internazionali, persino più di una pionieristica sperimentazione in ambito new media. Studio Azzurro aveva puntato ad altro, molto più in là: la costruzione di un immaginario, la messa a punto di una cifra estetica, una maniera nuova di intendere l’esperienza della fruizione e l’atto della comunicazione, ripensando quella triangolazione sacra che si struttura liberamente attraverso i tre vertici di sempre: artista, opera, spettatore. E allora tutto cambiava, in sinergia con i tempi e le evoluzioni del pensiero, del gusto, della sensibilità. E la parete originaria era squarciata: la superficie dell’immagine – che fosse quella immobile del dipinto, quella plastica della scultura, quella frammentata dell’installazione, quella crepitante del video – smetteva di essere linea di separazione tra visibile e invisibile, tra realtà e immaginazione, tra corpo e simulacro, tra presenza ed evocazione; per divenire soglia, canale, giuntura, passaggio. Una linea come possibilità: esasperazione magica dell’artificio, tempo del kairòs, l’inverarsi di un incantesimo progettato per confondere le acque.
E di colpo la mano si calava nello schermo, il corpo incontrava il proprio doppio, l’occhio guardava l’immagine ma solo per riuscire, attraverso di essa, a rimirare se stesso. Chè nessuna separazione era più invincibile, nessuna barriera: Studio Azzurro, anno dopo anno, tecnologia dopo tecnologia, scena dopo scena, aveva rotto il tabù. Vero? Falso? Dentro? Fuori? Reale o virtuale? Un unico flusso – d’aria, d’acqua, di fuoco, di sostanza eterea e spirituale, e insieme di pixel, di circuiti, di algoritmi digitali, di campi d’energia – vedeva immergersi assieme gli estremi, gli inconciliabili, il possibile e l’impossibile, il qui e l’altrove, l’oggetto e il soggetto, l’adesso ed il mai. Ovvero, la presenza e il suo prolungamento differente.
Così, era un gioco senza fine: toccare uno schermo e attivare una narrazione; concepire un video come segno drammaturgico, detonatore di azioni e di scrittura scenica; camminare in uno spazio liquido, essendo parte di un ambiente emozionale; essere attori, vestendo i panni di spettatori; essere materia prima dei sogni: l’artista, come il fruitore, come l’opera stessa, viva, vivissima, eccentrica e fluida.
Questa era l’avanguardia di Studio Azzurro, questa la sua idea di modernità. Un umanesimo tecnologico, che al centro dell’ipertrofia di macchinari sempre più evoluti, metteva a sorpresa la consistenza del sentire, la verità dell’immaginare, l’urgenza del desiderare. Tutto così umano, fatalmente umano.
Opera emblematica, legata agli inizi della carriera di Studio Azzurro, resta Il Nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg), datata 1984. A quel tempo l’interattività era ancora una faccenda latente. Stava nell’aria, in potenza, come una volontà silente. E stava già dentro l’immagine, audacemente sommersa.
Ventiquattro monitor, tredici programmi video e in fase di ripresa dodici videocamere fissate sul bordo di una piscina, a pelo d’acqua. Il risultato non era più la rappresentazione di un nuotatore e delle sue bracciate stanche, vigorose, ripetute. Il risultato era la spazializzazione di un’esperienza, la sua incarnazione iconica, la sua trasmutazione dal corpo della verità epidermica al corpo della verità elettronica. Non più una serie di freddi monitor accostati, luoghi della registrazione e della fiction, ma lo spazio di un accadimento, tempo presente in cui un corpo esisteva, si tuffava, si spostava – di televisore in televisore – catapultando al di qua della soglia lo spettatore: entrambi in mezzo alla corrente. E così quei cento piccoli frammenti narrativi, sospesi senza logica nell’azzurro – un salvagente, un’ancora, un pallone…- erano ulteriore escamotage percettivo che chiedeva al fruitore uno sforzo di immaginazione, l’esercizio di un disvelamento, una sovrascrittura personale. L’interattività non c’era ancora, ma il suo presupposto ideale sì.
E l’interattività sarebbe giunta presto, nei lavori successivi, come per il celebre Tavoli (perchè queste mani mi toccano?). Siamo già nel 1995 e la scena è apparecchiata con sei tavoli che accolgono attori, oggetti, indizi. Tutto più o meno immobile. C’è una donna distesa, una tovaglia imbandita, una goccia d’acqua che cade ossessivamente dentro una ciotola. Poi basta toccare la superficie piatta perché la storia incominci: l’immagine reagisce, la narrazione si attiva, l’azione prende il posto della contemplazione. Tecnologia nascosta, che occulta il medium e libera l’incantesimo. Ed è la stessa, vecchia, sacra, suadente logica del teatro. Dove la nudità è inganno, dove la verità diventa oscena, dove l’artificio si fa rivelazione. La relazione filosofica tra immagine e sguardo acquista dunque concretezza nuova, mentre l’alchimia tecnica ci immerge nella sostanza del pensiero e della visione: strumento al servizio di esplorazioni esistenziali.
Studio Azzurro, negli anni, ha progettato installazioni artistiche, ma anche allestimenti teatrali, didattici, museali. Ha lavorato col teatro, con l’architettura, col cinema, con la musica, con la scrittura. Ha inseguito un’idea dell’arte totale, sospesa tra sacro e profano, che potesse rafforzarsi sotto forme molteplici, ma con un unico scopo: continuare a fabbricare luoghi immateriali e sorprendenti, in cui consentire alle persone di essere altrove. Rispetto all’ovvio, al banale, al quotidiano, allo stesso.
Paolo Rosa, anima e indimenticabile volto di Studio Azzurro, è scomparso due sere fa, il 20 agosto del 2013. Era in vacanza, in Grecia, e nella quiete si è fermato il suo cuore. Un infarto fulminante, a soli 64 anni.
Dello sguardo dolce e profondamente umano di Paolo, dei suoi modi gentili, della sua consapevolezza e del rigore, della tenacia, della libertà, del talento e della sensibilità, e di quella voglia di condividere esperienze, nozioni, intuizioni con decine di studenti e collaboratori… Di tutto questo non sarà semplice immaginare una fine. Certi artisti, certi uomini, è come se non dovessero trascorrere mai. Non ci si pensa, non lo si mette in conto. Talmente incongrua è la morte rispetto al loro peso specifico, al loro passo e alla statura.
Con questo lutto si smorza la scintilla di quella macchina dei sogni, nata nel 1982, a Milano. Perché non sarà più lo stesso, da ora in poi, Studio Azzurro; che intanto scrive, sulla home page del sito, al margine di una vecchia foto in bianco e nero del loro primo studio: “”L’Arte fuori di sè” è il titolo dell’ultimo libro scritto da Paolo prima di lasciarci. Pensiamo, unendoci per lui in un unico abbraccio, che questo possa essere un bel saluto per uno spirito libero come il suo che vive indifferentemente in terra e in cielo”.
Sono in tanti, oggi, a ricordare Paolo e a dirgli grazie. A lui e a quella sua capacità di sognare immagini nuove, senza sosta, non dimenticando di farne spazio, luce, esperienza. Una malia elettronica che si tinse d’azzurro, trentun’anni fa, per mano sua e dei suoi compagni d’avventura. Azzurro di cielo, d’acqua, d’infinito. Azzurro di schermi e d’elettricità. Correnti parallele, dove ora l’artista-sognatore sta ancora navigando. In un’altra direzione. Buon viaggio, Paolo Rosa.
Helga Marsala
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