Fabio Mauri a Venezia. Picnic o Il buon soldato, memorie di morte, di vita e di guerra
Una storica performance di Fabio Mauri, all'ex Birrificio della Giudecca, a Venezia. Racconti d'amore e di morte, evocando il conflitto bellico e traducendolo in oggetti, presenze, ricordi. Prodotta da Michela Rizzo, in mostra fino al 30 novembre
Un’opera del 1998, presentata per la prima vota alla Galleria La Tartaruga di Castellucio di Pienza. Un’opera che torna a vivere, oggi, dopo quattro anni dalla scomparsa di quell’artista geniale che fu Fabio Mauri. È la galleria Michela Rizzo di Venezia, che aveva già ospitato una sua personale proprio nel 2009, a riproporre Picnic o Il buon soldato, in una sede outdoor scelta per le sue caratteristiche architettoniche ideali: l’ex Birrificio dell’isola di Giudecca, con i suoi ambienti ampi e i soffitti alti, tipici di uno spazio industriale, bene si presta ad accogliere le opere performative e installative di Mauri, solenni, complesse, intrise di una sacralità senza tempo e insieme di una drammaticità tutta terrena, che vive lungo la linea intricata della Storia.
Picnic o Il buon soldato vede al centro della scena una donna quasi nuda, quasi immobile, quasi assente. Eppure con tutto il peso del suo esserci, occupando un posto simbolico ancorché concreto. Accovacciata su uno sgabello a sfogliare pagine ingiallite, la sua schiena è divenuta schermo, su cui un vecchio apparecchio proietta il film “La ballata di un soldato” di Grigorji Chukhraj.
Poi, un giovane soldato e una donna in camicia da notte si muovono in mezzo al pubblico, compiendo un’azione quotidiana, intima, d’amore e di tepore: servire una minestra calda, a tutti, come in un rito profano. Intorno un catalogo di oggetti d’uso comune e reperti originali del periodo bellico. “Il pensiero non opera che per forme. Si precisa per forme chiuse. Come gli oggetti”, scriveva Mauri. Oggetti dunque come testimonianze sature di memoria, come idee fattesi segni plastici, come tracce ingrigite, logore, eloquenti, infinitamente malinconiche.
Ed è piena di malinconia, questa performance di Mauri. Tristezza, leggerezza, un’apparizione immateriale, quasi sfocata, quasi che le comparse, il cibo, i gesti e le cose fossero meno consistenti delle immagini del film. Visioni incarnate del presente, per qualche istante appena: il gioco seducente del ricordo, la sfida dell’immaginazione, la verità bruciante del teatro. E la sua smentita.
L’opera si costruisce così intorno al doppio, tra serie di opposti che si intersecano, che convivono: l’azione e la contemplazione, la stasi e il movimento, il nutrimento e il gelo, il passato e il qui e ora, la vita e la morte. L’intera scena potrebbe somigliare a una grande natura morta: libera trasposizione di un racconto di guerra, cavalcando il tema del conflitto, della crudeltà, della solitudine, della sparizione. E farlo, però, nel nome dell’esistenza.
Vitalissimo Mauri, politico, erotico, linguistico, incisivo. Infine, nel gioco irrisolto degli opposti, quel che resta è il senso di un’attesa: un limbo dolce, di nostalgia e di timore, che è parentesi tra la pace e un orrore nuovo.
Helga Marsala
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