Noli me pingere. Un videoritratto di Alfonso Leto
In Sicilia, nel suo atelier domestico gremito di tele, colori, oggetti, frammenti di sacro e profano, Alfonso Leto porta avanti una ricerca originale e appassionata. Con questo film, Giampaolo Puleo e Dario Lo Vullo provano a catturarne il senso, l'intimità, la natura tecinca e concettuale
Noli me pingere è il titolo di una delle ultime personali di Alfonso Leto, siciliano dell’agrigentino, nato a Santo Stefano Quisquina nel 1956, tra le figure più singolari e interessanti della scena artistica isolana. Era il 2010 e il piccolo progetto presentato nella palermitana Zelle trovava in questa locuzione di biblica memoria tutto il senso di una provocazione non facilmente districabile. In principio era “Noli me tangere”: le parole di Gesù rivolte a Maria Maddalena di fronte al sepolcro furono tradotte con il più immediato “non mi toccare” o con il più concettuale “non trattenermi”. Ad ogni modo, si trattava della richiesta di un atto di fede, l’invito dolce e perenterio ad accettare la luce opaca della resurrezione: nessun corpo, nessuna presenza, nessuno spirito incarnato nel mondo. L’immagine di Cristo era adesso immagine di Dio, senza peso né destino terreno. Icona transitoria, votata alla sparizione e sottratta alla verifica certa.
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Alfonso Leto, Santa Rosalia degli anarchici – olio/cartone alveolare e innesti di ascia stelle metalliche e gadget devozionale in sylver, 160 x 185 x 5 cm
Noli me pingere, nella trasposizione ironica di Leto, è quel “non mi dipingere” che conduce, probabilmente, a una condizione di negazione, di invisibilità, di sparizione dell’immagine pittorica, propria di un tempo presente che di simulacri trabocca e che dell’effimero ha fatto la propria vocazione. La carne della pittura, la materia del racconto, la ferocia del gesto in cui si radica l’idea, sono tutte cose che hanno rischiato, a più riprese, di venire meno: scomparire, nel risucchio cinico del ciclone mediatico, nel fuoco fatuo della pubblicità e della televisione, nella tirannia necessaria del concettuale, e infine nel delirio onnipotente dei falsi miti digitali, laddove tutto esiste e non esiste, e la soglia tra le due cose non è più motivo di stupore, né di confusione.
La pittura viene meno, con il suo carico di sangue e desiderio, con il suo tempo circolare, con la sua verità umanissima, tragicamente stesa tra il sacro ed il profano, la terra e il cielo, l’origine ed il fato, il peccato e la virtù, l’assoluto e l’immanente, il pathos e la ratio. Lurida, viva, trasgressiva. Rivoluzionaria, più spesso di quanto ci si immagini.
Non dipingermi: pare quasi la realtà, a chiederlo. Quella del mondo o quella dell’arte stessa. Ma è un’invocazione o una provocazione? Una resa o un salto oltre l’ostacolo? Una preghiera o una burla? Questa linea sottile, questo universo di soglie, di sgambetti, di insolenti trasposizioni, di metafore buffe, di calembour, di citazioni e di esplorazioni intellettuali… Tutto questo è il “modus pingendi” di Alfonso Leto. Il suo modo di dipingere, di pensare la pittura e di intrecciarla alla scultura, di immaginare l’arte e di farne a un tempo oggetto, pensiero, rituale. Indisciplinatamente.
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Alfonso Leto, Anciène Regime, olio su tavola, 2008, 115 x 113 cm
E si chiama proprio Noli me pingere il bel documentario girato da Giampaolo Puleo e Dario Lo Vullo, due talentuosi, giovanissimi film maker, anch’essi quisquinesi, che al maestro hanno dedicato un videoritratto intenso, fatto delle sue parole, delle sue peregrinazioni tra Antonello, Pollock e Tarkovskij, dei suoi gesti di ogni giorno, coi pastelli tra le mani e uno studio gremito di tele, reliquie, pennelli, oggetti trovati.
Leto, uno di quegli artisti che sono anche – e forse prima di tutto – intellettuali, si racconta in queste immagini, lasciando scorrere tutta la sua passione creativa e in qualche modo politica. Un discorso, quello portato avanti in oltre trent’anni di lavoro, che non prescinde dal sociale, dalla lettura degli eventi contemporanei, avvicinando l’immaginazione all’esegesi del mondo: il suo piccolo territorio di tradizioni, di paesaggi, di linguaggi locali, convive con l’orizzonte globale, scandito da economie impazzite, confini crollati, asfissie consumistiche, baldorie mediatiche, conflitti e naufragi, idolatrie vecchie e nuove, bagliori postmoderni e cadute liminali, cercando etiche ed estetiche del domani.
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Alfonso Leto, Gotico fiorito, olio su tela
Spesso influenzato dall’immaginario religioso, come pure dai grandi personaggi della cultura e della storia politica, e poi dalle cose qualunque del quotidiano, Alfonso Leto tramuta il kitsch in poesia, spinge l’ironia quasi fino allo sberleffo, raccatta memorie epiche e frammenti di misticismo, per poi mischiare il tutto col banale, il residuo, la plastica e il colore, in un pastiche ambiguamente allegro. Ne viene fuori un caleidoscopio di provocazioni, di doppi sensi, di innocue blasfemie, di evocazioni storiche, di assemblaggi irriverenti, di icone fuori posto, di nostalgie e decorazioni naïf. Una maniera d’essere pop, attingendo da filosofia, letteratura, testi sacri, cinema, cultura televisiva, cronaca.
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Alfonso Leto, Monogramma, 2007, rovi intrecciati
Artista sui generis, Alfonso Leto. Romantico come un corteo di piazza, come una sorgente d’acqua sottratta ai furfanti del potere, come chi insegna a scuola la fatica e la letizia dell’arte contemporanea, come un disegno infantile in punta di matita, come una corona di spine che svela il sogno e il segno di un’invincibile anarchia. Esprit poetico, polemico, ironico, in qualche modo melanconico, senza mai tradire l’azione in nome della contemplazione, né viceversa.
Un artista ai margini, tanto stimato e rispettato, quanto schivo e poco allineato. Uno per i fatti suoi. Uno che difende le bellezze dei suoi luoghi, contro l’indifferenza e la speculazione, mentre difende la pittura dalla sparizione, dalla debole new wave e dalle buone maniere. Restando quello che è, ma senza scordarsi di guardarsi intorno, in cerca di un linguaggio a misura delle cose. Quelle sopravvissute e quelle che verranno, tra un’immagine profana e una memoria sacra.
Helga Marsala
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