Ezechiele Leandro e il Santuario della Pazienza. Storia di una vocazione, tra il margine e l’abbandono
Storia di un artista irregolare. Un uomo semplice, con il dono dell'arte. Pittore e scultore autodidatta, produsse nella sua casa di San Cesario un'enorme quantità di dipinti e gruppi scultorei. Il suo giardino visionario, costruito con la pietra e materiali di risulta, è oggi in stato di totale abbandono
Questa è la storia di un trovatello di nome Ezechiele Leandro. Che fu pastore, soldato, minatore, migrante, biciclettaio, mercante di rottami; figlio illegittimo, senza cognome e senza storia, con una madre ritrovata da bambino e poi una moglie con cui dividere una casa, costruita su un pezzetto di terra a San Cesario. Qui crebbero i suoi quattro figli, qui trovò la quiete dopo tanto vagare tra l’Africa, l’Italia e la Germania, in cerca di lavoro. Qui capì, in mezzo alle valanghe di cose vecchie, da vendere e aggiustare, che la sua stella era diversa e irregolare. E che per il resto della vita avrebbe avuto, tra le mani, l’ebbrezza di una vocazione.
Ezechiele Leandro, nato a Lequile nel 1905, era un artista. Uno di quelli che chiamano outsider, senza formazione, senza esperienza, fuori dai circuiti ufficiali, cresciuti più o meno al margine, chi per follia, chi per povertà, chi per malattia o condizione sociale. Scultore e pittore, fu tra gli anni ’40 e ’50 che iniziò a dedicarsi con costanza alla sua passione, riuscendo ad ottenere via via l’attenzione di qualche quotidiano, delle tv locali e di piccole gallerie, arrivando a esporre persino all’estero.
Aveva talento Ezechiele, un talento fuori dal coro: mai entrato nell’esteblishment, mai veramente consacrato dall’Olimpo degli artisti, quelli “veri”. E non troppo ben visto dalla sua gente, quella comunità che lo guardava storto, con sospetto: un mezzo matto, un accattone, un eccentrico, uno che sfornava idoli, mostri, creature del demonio che era meglio non guardare. Non ce le volevano, a San Cesario, le sculture di Ezechiele. Che roba era? Arte? Rottami? Totem dell’orrore? E allora le offese, gli attacchi, gli sfregi, le piccole persecuzioni. Solo invidia, diceva lui: perché io faccio quello che loro non sanno fare. “Ma non potranno distruggermi, perche quando me ne rompono una io ne faccio dieci”. Il potere dell’immaginazione, più forte di quello del feticcio.
Produsse così centinaia di quadri e sculture, figli di un primitivismo viscerale, in cui si leggono racconti di fuoco e di terra, con la durezza della roccia e la minuzia della decorazione, con l’ambra e la porpora del pigmento, con le piccole figure stilizzate – alberi, animali, uomini e donne – a evocare millenarie incisioni rupestri; e poi le opere monumentali a tema bibilico, dalla Fine del Mondo alla Divina Commedia, tra anime, santi, peccatori, angeli e demoni, scene epiche partorite da una fervida immaginazione, tramutate in folle brulicanti di soggetti tridimensionali.
Ma la più maestosa, strepitosa opera di Ezechiele è ospitata all’esterno di casa sua, sotto il cielo di San Cesario, in quel pezzetto di terra comprato al suo arrivo in città. Un’architettura utopica, come un tempio pagano, tributo al paesaggio e alle forme ancestrali, al regno dei morti e dei vivi, alle cose sacre e a quelle rotte, bucate, ferite, trovate. Perchè a lui piaceva così: mescolare e riciclare. Pietra, legno, creta, stoffa, ossa, copertoni, ferro, piastrelle, materiali di risulta: cose cucite insieme per miracolo, per istinto e per perizia, praticando quel gusto per il residuo, per lo scarto ed il frammento, che tra i primi, Ezechiele Leandro, non capendone nè di estetica né di art brut, espressionismo, informale o new dada, aveva afferrato e cavalcato, facendone la propria cifra poetica.
Il Santuario della Pazienza, inziaito nel 1962, è uno spazio visionario fatto di grovigli, teste, pozzi, statue, piccole tessere musive, stille di colore incastonate nella roccia, mucchi di pietre accatastate, scolpite, lavorate, tra moltitudini di forme e spirali, concrezioni ed accumulazioni: un magma delirante di santi, pupi, musicanti, sentinelle, a inghiottire il visitatore come nel mezzo di una fiaba. Horror vacui gotico, surreale, primordiale.
Nel 1970 morì la moglie di Ezechiele, e fu un tuffo nella disperazione. Undici anni dopo avrebbe chiuso gli occhi lui, settantaseienne, lasciando la sua opera a un destino di rovina e di oblio.
Nessuno ha tributato e celebrato, per come sarebbe stato necessario, la figura di questo artista indipendente. E nessuno, clamorosamente, si è davvero preso cura dei suoi beni. Dalla casa museo, con un’ampissima collezione, a quell’incredibile opera d’arte a cielo aperto, che nel nome della lentezza, della pazienza e della devozione, Ezechiele Leandro aveva messo insieme, lavorando di testa, di occhi, di spirito e di braccia.
I figli e i nipoti, unici custodi, negli anni hanno chiesto una mano alle istituzioni: il comune di San Cesario, la Regione Puglia, le soprintendenze, gli assessorati… A chi spettava e spetterebbe tutelare questa generosa eredità, divenuta patrimonio collettivo? Proteggerla dalle intemperie, dai vandalismi, dagli smembramenti, dai furti, dal naturale degrado. Un bene pubblico, che nessuno ha mai voluto e saputo salvare. La scorsa estate, il nipote, Antonio Benegiamo, stanco dell’indifferenza generale, ha portato via alcuni gruppi scultorei, per metterli al sicuro. Con annesse proteste di studiosi ed estimatori: il piccolo giardino di Via Cerundolo è ormai l’ombra di se stesso, quasi sparito, naufragato, andato in pezzi, disgregato. Una cancellazione volontaria, operata con incoscienza da chi avrebbe dovuto, con rispetto, farsene carico già molti anni fa.
A ricordare Ezechiele Leandro, in un momento di grande preoccupazione per il destino delle sue opere – o meglio, di ciò che ne resta – è il collettivo di artisti riunitisi intorno al progetto Lu Cafausu. Che nel celebrare la quarta edizione de La Festa dei vivi (che riflettono sulla morte), tra il Salento e l’Arizona, nella sera del 2 novembre hanno proiettato il documentario di Corrado Punzi, presso gli spazi di Palazzo Ducale, a San Cesario. Un film a cui fa eco, in quackhe modo, una vecchia intervista degli anni Settanta, raccolta da una tv locale. Con la sua voce flebile, Ezechiele, nella genuinità del linguaggio e nella certezza di una predestinazione, racconta il suo percorso di ricerca estetica, narrativa e simbolica. Osservando sè stesso e il mondo da quella prospettiva marginale che a volte assegna obliquità, distanza e differenza necessarie: il genio, in certi casi, passa per le storie senza nome, nè origine, nè memoria. Inconsapevolmente in cerca di una narrazione superiore.
Helga Marsala
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