La costruzione di una cosmologia – vol. 1. Le utopie quotidiane e il ruolo sociale dell’artista. Alessandro Bulgini e Gianfranco Baruchello
Alessandro Bulgini e Gianfranco Baruchello, in un dialogo colto, profondo, affilato. Due generazioni a confronto, discutendo di utopie nell'arte e del ruolo dell'artista nella società. Nell'attesa dell'ultimo incontro del ciclo: Gian Maria Tosatti e Jannis Kounellis, a Napoli, per parlare di identità
La riflessione sul ruolo sociale dell’artista, inaugurata dal progetto La costruzione della cosmologia, è arrivata all’ultima tappa. Mentre è già partito il secondo volume – un tentativo di scrittura della storia dell’arte degli ultimi quindici anni – un nuovo appuntamento chiuderà questa prima tornata di incontri, curata da Gian Maria Tosatti. E sarà proprio Tosatti, sabato 7 dicembre, a prendere la parola come ospite, in un faccia a faccia con Jannis Kounellis. Un altro incontro-scontro generazionale, in cui provare ancora a rispondere ad alcune domande essenziali: chi è l’artista? Cosa rappresenta in una società?
L’idea di fondo, nel percorso che questo gruppo di artisti sta compiendo, in cerca di momenti autentici di riflessione condivisa, ha spesso ruotato attorno al tema dell’identità. Tema che diventa il cuore di questo talk conclusivo. L’artista, dunque, come “custode dell’identità della comunità a cui appartiene“. Colui che conserva, coltiva, rivela forma e natura della comunità allo stesso nucleo comunitario, essendone specchio e al contempo motore, elemento determinante sia nella dedicodifica, sia nella costruzione, sia nella conservazione e nel trasferimento di tale patrimonio strutturale. Perchè se identità significa necessariamente radici e appartenenza, è essenziale che questo senso profondo – in cui il fuoco originario non sia scambiato con la polvere della nostalgia – si moduli anche intorno a una continua rigenerazione, tra ulteriori disvelamnenti, spostamenti imprevisti, balzi in avanti e poi all’indietro, frammentazioni e ricomposizioni. L’artista è, probabilmente, la figura che meglio incarna questa doppia vocazione: il tradimento e la memoria, l’interiorizzazione del passato e l’urgenza del futuro, l’aura senza tempo dell’icona e la sua contemporanea dissacrazione.
Ne discuteranno al Museo Erman Nitsch di Napoli Tosatti e Kounellis, due artisti diversi per età, per formazione, per ambiti di ricerca e contesti storico-culturali di riferimento; due artisti, però, accomunati da una sensibilità forte per l’elemento monumentale, inteso come spazio epico, imponente, attaversabile o plastico, su cui rintracciare minimi passaggi, piccoli segnali, l’impronta di una presenza e di una storia, che sia individuale o collettiva.
E di questi temi hanno discusso, soffermandosi in particolare sull’aspetto delle “utopie quotidiane”, Alessandro Bulgini e Gianfranco Baruchello, ancora un artista più giovane e un maestro, incontratisi lo scorso 12 novembre, non a Napoli, come di consueto, ma a Roma, nello studio di Giuseppe Gallo. Il ruolo dell’artista per Baruchello? “E’ minimo, nel senso che gli artisti non cambiano proprio nulla. Possono essere una specie di disturbo per il sociale, perchè fanno scandalo, perchè uno diventa ricchissimo e l’altro si strafà di eroina. Diventano personaggi. Ma in Italia, comunque, l’artista ha un ruolo assoutamente marginale“. E cita Fellini, come esempio – più unico che raro – di artista che ha influenzato la cultura dell’immagine, divenendo qualcosa di “insormontabile“, per dirkla con Klossowski. Qualcosa che resta, che “sta là“, come una montagna, come una verità.
Per il resto, tanti personaggi – amabili e amati – che rischiano di sbagliare, di essere incompresi, di essere persino ridicolizzati, conducendo una “battaglia solitaria contro la stupidità, contro al superficialità“. Ognuno col suo linguaggio, fatto di immagini e di parole, con un’unica sfida: “tentare di descrivere il mondo, ma anche di far la pace col mondo: non cambiarlo, ma capirlo. E farsi capire, che è più difficle“. E ancora, in questo riflettere ad alta voce, incastrando saggezza, ironia, malinconia, il senso di un’impossibilità del cambiamento si coniuga col racconto delle proprie utopie d’arte e di vita – e il riferimento è alle esperienze di Agricola Cornelia e della Fondazione Baruchello – ma nella consapevolezza che “l’artista deve modificare innanzitutto se stesso, leggere se stesso“, piuttosto che il mondo.
Simmetrico e complememtare è il racconto di Bulgini, che tutto punta, invece, sul bisogno incalzante, cocciuto, di cambiarle le cose. E di farlo con l’arte. Capovolgendo, spostando, forzando, ricomponendo, essendo improvvisamente maghi, alchimisti, o anche solo prestigiatori, pronti a fallire: “Ho pensato alla mia responsabilità sociale, al mio impegno, e ho ritenuto che il mio compito fosse importante. E che il compito dell’arte lo fosse. E che l’arte potesse avere questa opportunità, questa possibilità di spostare delle cose. Ci ho sempre creduto e ho fatto sempre delle battaglie personali, ritengo anche abbastanza importanti. Per questo, a un certo punto, ho smesso di dipingere. Sono sceso da casa, ho chiuso lo studio e ho fatto come i maghi, che riescono a fare delle magie con le mani libere. Faccio un trucco, vado sotto casa mia e la prima cosa che incontro la voglio tarsformare in opera virale, che sia un’opportunità per il mondo. La prima cosa che c’era sotto casa mia era il bar. Questo bar si chiamava Bar Luigi“.
E se Baruchello chiosa con un secco “è il mondo che ha cambiato me“, nella dolcezza di quello scetticismo speciale che segue l’incanto, tra memorie di versi, di guerre, di erosimi franati e di mondi in pezzi, Bulgini punta gli occhi altrove e taglia l’aria, a suon di parole: “Per me, l’arte è una lama“.
Duello di sguardi e di biografie, quasi un valzer di pensieri avvolgenti, andando appresso a un senso che sfugge e si fa molteplice. Ad ogni passo, ad ogni parola nuova. Mentre l’immagine viene, infinitamente.
Helga Marsala
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