Fuck The English. La Babele di Cristian Chironi, in quattordici step
La documentazione della performance presentata da Cristian Chironi al Man di Nuoro. Quattrodici step per scandire il percorso espositivo ma anche la struttura dell'azione: scena dopo scena, il linguaggio si fa luogo della contaminazione culturale, dell'errore, della differenza
È di scena al MAN di Nuoro, fino al 3 marzo 2014, la personale di Cristian Chironi (Orani, Nuoro, 1974) dal titolo Broken English. Un vocabolo di cui Chironi si appropria per indicare le varianti empiriche della lingua inglese: terminologie mal strutturate, magari di uso comune da parte di individui non anglofoni, si acclimatano nel lessico quotidiano, dando vita a veri e propri neologismi. La mostra sviluppa tali elementi linguistico-fonetici, trasformandoli in immagini, oggetti, azioni.
Nel giorno dell’opening, che svelava un percorso eterogeneo tra installazioni, sculture, lavori grafici, video e sonori, Chironi ha dato vita a una performance, restando fedele a un linguaggio che accompagna la sua ricerca fin dagli esordi: uno strumento, abilmente praticato, con cui decodificare i linguaggi del corpo e della voce, giungendo ad una formalizzazione ironica e allo stesso tempo fortemente calata nel reale. Al centro, spesso, le possibili, inedite relazioni tra polarità dialettiche opposte, da cui si generano dicotomie del linguaggio quali figura/immagine, realtà/finzione, presenza/assenza.
La performance elaborata per Broken English si suddivide in quattordici step, per una struttura articolata secondo istruzioni precise che scandagliano il complesso sistema di comunicazione scaturito da ibridazioni linguistiche, fonetiche, culturali, visive.
L’azione si apre con la dimostrazione di come sia possibile comunicare anche solo attraverso l’utilizzo di gesti, senza proferire parola; poi, seguendo una propedeuticità dettata dall’artista, si procede all’opposto, con un gioco di accenti ottenuto mediante la deformazione della parola “International”, per giungere allo strep 3, in cui varie tipologie di tappeti vengono sovrapposte a simboleggiare un melting pot di rimandi e funzioni.
Dal quarto step, che vede Chironi alle prese con la riproduzione live di versi di animali, mentre un vociare confuso di lingue anglofone funge da “colonna sonora”, si arriva alla vestizione con abiti differenti per tessuto, lavorazione e provenienza, traducendo l’ibrido linguistico nuovamente in immagine. Abiti subito dismessi, con lo step 6, connotati in base alla nazionalità di provenienza, e riposti in una sacca. Subito dopo è il turno di una tazza da tè inglese, caduta e frantumatasi, al suono di parole onomatopeiche.
Lo step 8 diventa invece una sorta di esperimento, con l’artista che telefona a una pizzeria a domicilio locale, esprimendosi unicamente in inglese: impossibile capirsi, nella piccole Babele telefonica, e riuscire dunque a portare a buon fine l’ordine.
Più concettuale degli altri lo step 9, che sancisce una presenza immateriale attraverso l’affermazione stessa di un’assenza, preparando la scena alla successiva traduzione di un bollettino meteorologico effettuata con Google Translate – con ovvia perdita di senso – e trasformata così in una sorta d’incantesimo.
Nel frattempo, con una scritta sgrammaticata sul muro, Chironi descrive un paesaggio che si contrappone alla revisione in Globish (global english) dell’Hamlet di Shakespeare, ridotto a 1500 parole. Si prepara poi lo step 13, che in maniera interattiva propone domande agli astanti, giungendo alla conclusione: un saluto abbreviato e scorretto (step 14) mentre il pubblico sbircia il foglio di sala, ricevuto all’ingresso. Anche quest’ultimo parte del puzzle: un rendering numerato delle opere in mostra conduce alla soluzione del rebus, ottenuta unendo la prima lettera di ogni parola. Il messaggio? FUCK THE ENGLISH. E si conclude il viaggio.
Gino Pisapia
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