Sgarbi VS Goldin. La ragazza con l’orecchino di perla: occasione o tradimento?
Ospite del talk show di Nicola Porro, Vittorio Sgarbi commenta la mostra bolognese di Goldin, costruita intorno alla celebre tavola di Vermeer. E la stronca. Inutile operazione commerciale. Lunghe code per ammirare un'opera tramutata in icona, dimenticando i tanti capolavori italiani nell'ombra. Alcune riflressioni, partendo dalla polemica sgarbiana
Portare La Ragazza con l’orecchino di perla a Bologna? Un tradimento. Parola di Vittorio Sgarbi. Ma tradire cosa e perché? Secondo il critico ferrarese, ospite lo scorso 31 gennaio di una puntata di Virus (il programma di Nicola Porro in onda su Rai 2), un’operazione che “serve a prostituire l’arte, invece che a difendere l’arte che rappresenta una civiltà” è da condannare senza appello. Perché non è di lei, della donzella dal labbro lascivo e lo sguardo languido, che abbiamo bisogno. L’Italia ha già tanto, troppo: un patrimonio che resta nell’ombra, quasi sempre, né capito, né valorizzato, né condiviso. Ma allora perché Vermneer? E perché tanta folla, tanto rumore, tanta ansia feticista, nell’enfatico pellegrinaggio verso l’icona imbevuta di luce nordica?
Feticismo, per l’appunto. Una mossa studiata ad arte dall’allievo sveglio, Marco Goldin, e alimentata dal bisogno comune di costruirsi mitologie, iconografie senza tempo, riconoscendosi in esse e avendole già dentro. Sgarbi parla del capolavoro vermeeriano, intelligentemente, come di un archetipo. Qualcosa che c’è già, che ci appartiene. Come tutti i grandi capolavori. E che abbiamo bisogno di ritrovare, di toccare con mano, di affidare allo sguardo, così da dargli concretezza, valore. Ché non è solo il valore economico a contare, né quello storico o quello amplificato dalla comunicazione. C’è anche – e in certi casi prima – un valore psicologico, spirituale. Sono quei casi in cui non è più il pittore ad avere un ruolo, ma il dipinto. “Alcuni quadri vanno per conto loro, diventano persone autonome: questa non è di Vermeer. È dell’umanità, è dentro di te”. È allora inutile, conclude provocatoriamente, fare qualche chilometro di coda per andarla ad ammirare: non sarà il corpo materiale dell’opera a colpirci, ma la sua immagine, il suo simulacro. Basterebbe una riproduzione, in fin dei conti.
C’è del vero in questa iperbole, così com’è vero che una grande opera si stacca dal suo autore e procede in solitudine, incrociando i destini del mondo e di ogni singolo spettatore. Perdendo quasi la sua consistenza e trasformandosi in eredità universale, simbolo ed icona.
Ma non è del tutto vero che la magia si esaurisca nella celebrazione dell’idea, nel rito maieutico di chi porta fuori di sé la traccia indistinta di un’emozione, la memoria di uno sguardo, il senso profondo e vago di una presenza. In realtà, l’incontro resta un canale sacro. Lo spazio della verità, dell’aura, del disvelamento e dell’epifania: l’altrove che si invera.
Dunque sì, La ragazza con l’orecchino di perla, nella luccicante furbizia di quel gioiello che rapisce, nella combinazione di sensualità e di innocenza, nella pittura magistrale, nella spontaneità di quel volgersi, come in un ‘tu per tu’ confidenziale, continua a servirci. Ad esserci fatale: qualcosa che colpisce al cuore, e che sta scritto nel gioco degli incontri, delle seduzioni. Che ben venga allora la donzella del Nord, ad incantare, a suggerire storie, a intasare i centralini e a riempire le sale di Palazzo Fava. La relazione con un capolavoro non trascende mai la forma e la materia, anche quando ci si muove nel campo del mito.
Ma oltre a questo cosa c’è? Cosa stiamo costruendo, raccontando? La domanda – che può riguardare tutti gli eventi di questo genere – viene sollecitata dalla polemica sgarbiana, e non è di poco conto. La mostra resta una buona impresa di marketing, ma il progetto scientifico, la ricerca, l’articolazione di un discorso? Va tutto in secondo piano. Quel che conta è lo sfruttamento di un’immagine nota, per fare numeri. È il limite del successo di Goldin, più manager che studioso.
Ma c’è un’altra questione in ballo, sulla quale Sgarbi prende punti. Il senso sta tutto in quella frase: “difendere l’arte che rappresenta una civiltà”. L’Italia, traboccante di bellezza, non fa che guardare oltreconfine, in cerca di bellezza nuova. Dimenticandosi della propria. È il cancro che ci portiamo appresso. Il disamore di noi, la dimenticanza, l’indifferenza, persino la spietata vocazione al degrado.
Sgarbi cita alcuni capolavori italiani, così simili alla fanciulla di Vermeer per concezione, per emozione, per quantità di mistero, per genialità di composizione e di taglio: L’Annuciata di Antonello da Messina, La Dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci e il San Domenico di Niccolò Dell’Arca. Il primo e in terzo sono custoditi in Italia. Il professore li illustra, con la solita perizia affabulatoria, e poi ne sottolinea il dato essenziale: queste opere appartengono al nostro patrimonio, eppure, spesso, le dimentichiamo. Siamo disposti a fare lunghe maratone per ammirare la fanciulla col turbante color oro e zaffiro, ma non contempleremo mai, probabilmente, il gesto potente ed eloquente di quel San Domenico barbuto, che stringe il giglio tra le mani come un’arma, e custodisce, nella concentrazione granitica del pensiero, il concetto di Dio e il senso della sua impenetrabilità.
Siamo vittime di un’esterofilia che ci sottrae a noi stessi e ci consegna allo star system dell’arte e persino della storia? Può darsi. Perché se è vero che quella di Goldin è una macchina facile, ruffiana e commerciale – e qui non dovrebbe però essere Sgarbi a condannare progetti di tal fatta, con la sua intelligenza spesso sacrificata in nome di piuttosto mediocri operazioni – è anche vero che il punto non è nemmeno lei, la signorina avvolta dalla luce d’aurora. Il punto è tutto il resto, quel che sta intorno, quello che resta e che ignoriamo.
Può l’Italia lasciare che Pompei si accasci, fra crolli, crepe ed abbandoni, mentre a Londra sul mito di Pompei costruiscono faraoniche esposizioni, importando un po’ di cocci dall’Italia e sbancando alle biglietterie? Dov’è il senso? Qual è la perversione alla base?
Ecco allora che, messa così, l’ammaliante fanciulla dell’Aia forse la guardiamo con altri occhi, appena più distanti. Recuperare in Patria quel che ha valore immenso, imparando a venderlo con intelligenza ai turisti e a conoscerlo noi per primi, senza diffidenze e distrazioni? Riconoscere la bellezza e farsene carico, farne volano ed occasione? Magari. Sarebbe un passo oltre l’incompiutezza che ci descrive. Evitando di far viaggiare con troppa leggerezza i nostri gioielli più fragili e preziosi, e imparando a visitare in casa loro quelli stranieri. Che non significa inibire i transiti e i prestiti. Anzi. Significa dosarli, regolarli, usare dei criteri. Ed evitare, soprattutto, di cascare nella trappola: tanto trambusto per una piccola, straordinaria perla che arriva dal Nord, e una miopia diffusa per le molte gemme incastonate tra il paesaggio e la memoria, in un’Italia che non si ama più, che non si vede più.
La bellezza, passata e presente, è l’appiglio per mantenere il contatto, strumento radicale – nel senso di “radice” – per non mollare la presa: l’incontro con l’altro diventa consapevole – e quindi complesso, per cui non ruffiano – se passa dall’incontro col sé. Viceversa, resta moda, infatuazione. Flebile incantamento.
Helga Marsala
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