La galleria come gesto. Luca Cerizza intervista Fabio Sargentini
Uno dei galleristi italiani più noti e coraggiosi, figura determinante del secondo dopoguerra, talent scout straordinario e grande uomo di cultura. Fabio Sargentini racconta la lunga vicenda de L’Attico
Da quel garage di Via Beccaria, a Roma, e subito prima nel più tradizionale spazio di Piazza di Spagna, sono passati praticamente tutti. Tutti i grandi artisti italiani del secondo Novecento, e non pochi stranieri. Jannis Kounellis, Mario Merz, Eliseo Mattiacci, Sol Lewitt, Gino De Dominicis, Denis Oppenheim, Jean Tinguely, Pino Pascali, Luigi Ontani, Michelangelo Pistoletto: sono solo alcuni dei giganti che una galleria come L’Attico, fondata nel novembre del 1957, contribuì a scovare e lanciare sulla scena nazionale ed internazionale.
Tutto cominciò con Bruno Sargentini, allora quarantasettenne, affiancato da figlio Fabio, che tra le sale della sua galleria ospitò opere di Capogrossi, Leoncillo, Fontana, Mafai, Fautrier, Brauner, Magritte, Matta, Permeke, Canogar. Poi, nel 1968, il trasloco a Via del Babuino e la biforcazione tra la sua linea, più tradizionale, e quella dell’erede, più rivolta alla sperimentazione. Fabio Sargentini conserva il nome dell’azienda e riapre L’Attico in quel garage che avrebbe rivoluzionato il concetto stesso di spazio espositivo, di contemplazione estetica, di relazione tra pubblico e artisti. Sono anni di grande fervore sociale, politico, culturale, il tempo degli strappi e dei capovolgimenti, in cui l’Italia faceva ancora sentire la sua voce rispetto alla piazza europea e statunitense, nei campi dell’arte, della moda, del design, della musica, del teatro. Ancora capace di inventare forme e linguaggi, cavalcando l’onda euforica della decostruzione e dello sviluppo.
Sargentini vede sfilare, nella sua galleria, mostre e opere che raccontano un’arte di confine e di ricerca, all’origine dell’Arte Povera e lungo il solco del concettuale. Da allora, fra esperimenti col teatro e la danza, spostamenti in altri spazi, operazioni estreme – dalla risata beffarda e ancestrale di Gino De Dominicis, diffusa nella galleria vuota, alle Sculture Viventi di Gilbert & George, dai cavalli i carne e ossa di Kounellis ai Tableaux Vivant di Luigi Ontani – il gallerista romano ha incarnato un modello pionieristico e straordinario, essendo prima di tutto un intellettuale, dotato di un fiuto e un coraggio speciali.
Alcuni passaggi di questa appassionante storia li racconta lui stesso, nella video-intervista dal titolo “La galleria come gesto”, realizzata da Luca Cerizza nell’ambito del seminario su Brian O’Doherty “Inside the white cube”, curato lo scorso 26 marzo da Eva Fabbris e dallo stesso Cerizza, presso la Triennale di Milano.
Helga Marsala
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