Amos Gitai, il regista-architetto
Una conversazione con Amos Gitai. Lo abbiamo incontrato alla British School at Rome, nell’ambito di Meeting Architecture, ciclo di conferenze, mostre-studio e performance realizzato in partnership con il Royal College of Art, a cura di Marina Engel
“Politica, estetica, cinema”, così titolava il flyer dell’appuntamento con il regista israeliano Amos Gitai, tenutosi lo scorso marzo alla British School at Rome. Personalità di spicco della cinematografia internazionale, Gitai è stato celebrato da diverse retrospettive istituzionali, dal Centre Pompidou di Parigi, al NFT e ICA di Londra, dal Lincoln Center di New York fino al Festival di Venezia del 2012 (dove è tornato per l’ultima edizione, nella sezione in concorso, con Ana Arabia).
La storia di questo regista è intrigante quanto particolare: figlio del noto architetto Munio Weinraub – studente della Bahuaus, è egli stesso architetto. Dopo un dottorato alla Berkeley si è concentrato sulla produzione di immagini, prima come documentarista e poi con film di finzione sempre ai limiti della sperimentazione. Nel 2012 ha fondato il primo museo di architettura di Israele, dedicandolo al padre. Contemporaneamente ha scritto e diretto sedici film a tema in cui ha indagato tematiche legate all’architettura, l’urbanistica, la conservazione e la pianificazione, incontrando architetti, sociologi, archeologi, ricercatori culturali e scrittori.
L’approccio di Gitai alla camera è estremamente personale. Sempre impegnato sul sociale ha distillato temi di carattere universale facendoli passare attraverso le esperienze di singoli individui. Ha esplorato la storia attraverso la propria genealogia, portando la sua testimonianza empirica e dividendosi tra intenti razionali e straordinario intuito: il risultato è una maniera di lavorare col cinema che instilla sempre quesiti suggestivi sulla natura dell’uomo, le sue ispirazioni e aspirazioni. Concreto per via della formazione di architetto, ma capace di utopiche e incantatorie astrazioni, Amos Gitai riesce a toccare le profondità dell’animo con la leva inconscia delle immagini e dei suoni. La musica, sempre sofisticata, la direzione degli attori e il montaggio orientato al minimo degli stacchi possibili, sono la sua cifra autoriale distintiva, sempre in bilico tra meta-narrazione e idealizzazione. Nel nostro breve incontro ci ha raccontato il suo mondo, governato dal “potere simbolico delle idee”.
Federica Polidoro
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