La solitudine di Ayano Tsukimi. Storia del villaggio delle bambole
Tornare da una grande città nel proprio piccolo paese d’origine. E resistere al vuoto progressivo con un rituale magico. Il gesto di un’artista, di un’artigiana, di una poetessa. Di una donna-bambina che non voleva restare sola
Ayano Tsukimi è una donna di 64 anni, dall’aspetto forte e dai modi gentili. Dolce, di una dolcezza malinconica, ogni tanto rotta da un sorriso lieve, disegnato nel mezzo della solitudine. Ayano Tsukimi è sola, come soli si è raramente. Nel senso che intorno a lei non c’è quasi nessuno, per chilometri e chilometri. È tornata da Osaka undici anni fa, a Nagoro, un microscopico villaggio nascosto nella parte orientale di Iya su Shikoku, una delle quattro isole principali del Giappone. Montagne, ruscelli, cieli tersi, aria pulita e silenzio. Tantissimo silenzio.
Una volta a Nagoro c’erano una diga, un’industria e tanta gente che lavorava. Poi tutto ha iniziato a spostarsi verso le grandi città: il lavoro, le famiglie, gli interessi e le economie. Uno svuotamento progressivo, come una morte lenta o un incantesimo malato: oggi sono rimaste 37 persone. E Ayano, per non sentire la fine, per non avere paura, per continuare a tenere vicino chi moriva oppure partiva, si è messa a cucire bambole di stoffa. Pupazzi a grandezza naturale, come quelli con cui giocano i bambini, somiglianti agli essere umani e vestiti di tutto punto. In 10 anni ne ha fatti più di 300. Il villaggio, così, via via che si svuotava, iniziava a popolarsi delle sue bambole. Piazzate là dove un tempo c’erano le persone: nelle scuole, nelle case, nei giardini, alla fermata dell’autobus, a pesca, a caccia tra i boschi, sopra le panchine.
Ayano Tsukimi ha dato vita a una gigantesca, straordinaria, commovente installazione pubblica, di quelle che avrebbe potuto partorire un grande artista. Una messa in scena poetica, un brano di letteratura, un diario intimo, un’idea di scultura sociale; ma anche un amuleto contro la paura dell’abbandono, un esorcismo buono, una forma di resistenza, una preghiera artigianale. Il villaggio delle bambole, che i turisti si fermano a fotografare, è adesso la sua comunità. Qualcosa di cui prendersi cura. E tra i pupazzi ce n’è anche uno che somiglia a lei: il suo alter ego di stoffa, quello che resterà quando lei non ci sarà più, quando tutto il villaggio si sarà spento, quando l’ultimo pezzetto di vita sarà volato via. E il doppio immobile di Nagoro sarà l’incredibile, amorevole ritratto di una cittadina fantasma, così com’era moltissimi anni fa.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati