Il bambino che veniva dalla luna. L’autismo raccontato agli adulti, in un corto animato
“Mon petit frère de la lune”, selezionato da diversi cinefestival internazionali, si è guadagnato il Grand prix e il Premio del Pubblico al Festival Handica-Apicil 2007. Storia di due fratellini e della sfida per cercarsi, comprendersi, convivere, nel perimetro del disagio autistico...
Frédéric Philibert è un filmmaker che lavora con l’animazione. Scrive e costruisce i suoi lavori usando tecniche di stop motion, pixillation, disegno animato, e tiene degli atelier creativi per adulti e bambini.
Frédéric è anche il papà di Noè, un bambino che vive una condizione diffusa, quanto speciale: l’autismo, con tutta quella bellezza disperata di trovarsi in una bolla, sospesi tra la terra e il cielo. Lontani dalle cose, al di qua di quella linea di confine, al di là del linguaggio, percorrendo le distanze e le prossimità in una maniera propria. Qualcosa sparisce, qualcos’altro si impone, ossessivamente, occupando i pensieri, il campo visivo, lo spazio d’azione. Altri universi, altre gerarchie, altre misure. E qualche volta uno squarcio, a scalfire l’invincibile membrana.
Frédéric, un po’ di anni fa, ha partorito il suo short film più bello. Una piccola, tenerissima animazione, che ha il pregio di aver trovato una chiave: come raccontare l’autismo, usando gli occhi di un bambino. Anzi, una bambina. Coline, la sorellina di Noè. È sua la voce narrante del corto, che si avvale degli accurati testi scritti da Fred insieme alla novellista Anne Dupoizat.
Nella semplicità del tratto infantile e di un bianco e nero pulviscolare, la storia rivela lo stupore, la fatica e la gioia di una sorella, a cui è arrivato un dono: una creatura diversa, inquieta, distante. Coi i suoi gesti strani, i silenzi persistenti, quel modo di salire le scale senza saperle scenderle, o quel suo fermarsi per strada, davanti ad un tombino, senza staccarsi mai. E allora? Allora c’è il trucco: ad esempio coprirlo, il tombino, e spezzare l’incantesimo, riprendendo a camminare. Oppure inventarsi una lingua nuova per comunicare, infilarsi in testa un cappello di fata ed entrare in quella bolla, che nel film non si assottiglia mai: l’unico modo per mettersi in contatto, per riuscire a giocare. E poi zittire certi rumori, accettare certi rituali, cercare con pazienza un canale. Muovendosi lungo soglie sottili.
Noè guarda sempre in alto. Come puntando al cielo. Guarda le cose tonde e quelle lucenti. E a volte, con quegli strani gesti, è come se volesse volare. Chissà dove guarda, chissà da dove viene e dove vorrebbe andare, Noè. Coline lo sa. E in soli cinque minuti racconta, con una grazia disarmante e un’esattezza commovente, la storia di questo fratellino arrivato dalla luna. Che per tutta la vita proverà a raggiungere, tenendogli la mano.
Helga Marsala
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