Alberto Baraya a Berlino. L’impossibile tassonomia di un herbarium di plastica
Il progetto di Alberto Baraya, selezionato per l’ottava Biennale di Berlino. Spedizioni coloniali, piante di plastica, gabinetti botanici immaginari. Un video prodotto per il workshop “Dialogues” a cura di Lidia Rossner, nell’ambito del Master in Visual and Media Anthropology alla Freie Universität di Berlino…
Tra le sedi principali dell’ultima biennale di Berlino, il Dahlem Museum innesca un’intrigante cortocircuito tra la natura contemporanea e sperimentale delle opere accolte e l’identità scientifica delle collezioni. L’edificio, collocato nella parte sudoccidentale della città, racchiude il Museo delle culture Europee, un museo di arte Asiatica e un museo etnologico, con una ampissima serie di oggetti e documenti datati tra il XIX e XX secolo. Una galleria straordinaria di reperti arrivati dall’Africa, l’America, l’Asia e l’Oceania, vero tempio per appassionati di storia, geografia, antropologia.
Prestigioso il bouquet di nomi selezionato dalla Biennale: da Rosa Barba a Mario Garcia Torres, da Olaf Nicolai a Beatriz Gonzàlez, da Carlos Amorales a Saàdane Afif. Perfettamente armonizzato col contesto, il lavoro di Alberto Baraya, “Expedition Berlin, Herbarium of Artificial Plants”, aveva già fatto bella mostra di sé alla Biennale di Venezia 2009, per il Padiglione Colombia, approdando quindi in diverse istituzioni internazionali.
Tutta la seduzione di questa grande installazione sta nella coincidenza tra l’appeal scientifico del progetto, costruito sulla base di modelli archivistici e di laboratorio, e la dissimulata qualità artificiale. Un innesto tra verità e fiction, tra letteratura epistemologica e costruzione estetica, tra ricerca sul campo ed eleborazione creativa. Barraya analizza il modo in cui la natura è stata storicamente approcciata e rappresentata, attraverso la lente tipicamente colonialista: quella dell’esploratore, dello scienziato viaggiatore, dello studioso occidentale. Lo spunto sono le spedizioni europee del XVII, XVIII e IX secolo, che provarono a raccogliere e catalogare piante, animali, popolazioni indigene delle Americhe. Operazioni di studio importanti, che si accompagnarono però ad orribili politiche di distruzione, invasione ed oppressione.
Appropriandosi di tutto questo, Barraya ha simulato i processi alla base delle missioni coloniali, collocandosi idealmente tra terreni selvatici, studi medici, laboratori di ricerca: il risultato è un agglomerato di piante di plastica e reperti falsi, catalogati secondo criteri artistici e del tutto personali, nel quadro di una tassomonia fittizia, seducente e traboccante di ambiguità.
Helga Marsala
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