Giorgio Faletti, il mattatore. Uno, nessuno, centomila
Scrittore, pittore, musicista, appassionato di cucina, bowling, fumetti. Ma soprattutto attore: Faletti passò la vita a misurarsi con identità e personaggi differenti. Lo ricordiamo ancora, all'indomani della sua prematura morte, con una collezione di video: interviste, sketch, videcplip, booktrailer, presentazioni di mostre…
“L’uomo è uno e nessuno. Porta da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua ombra cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale delle due pesa di più. Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una mano pietosa ha tagliato i fili”. (Giorgio Faletti, Io uccido)
La cosa che più colpiva di lui, a parte la forte umanità che traspariva – nello sguardo, nei modi, nelle parole – era quell’eclettismo necessario che sembrava sorreggerlo, come l’unica maniera possibile per essere se stesso. E per scansare la noia. Giorgio Faletti, nato come caratterista e attore comico, non ha mai smesso di collezionare personaggi. Tra il palcoscenico e la vita. Dalle passioni futili e passeggere – come quella per il bowling, che un giorno lo rapì impetuosamente e che poi se ne andò, così com’era venuta – a quelle forti e durature, che gli cambiarono la vita, per sempre.
Eterno debuttante, bulimico, inguaribile ottimista, assetato di emozioni, quelle da dare e quelle da provare: sono solo alcuni dei modi con cui amava raccontarsi. Sottolineando, non senza compiacimento, che convivere con l’”oscuro personaggio” chiamato Giorgio Faletti era sempre e comunque un rischio: “non so mai cosa aspettarmi”. Il pensiero del doppio tornava, con insistenza, attraverso i libri e le interviste, nei pensieri e nelle narrazioni: un riflesso di sé, tra l’inquietudine e la seduzione. E così continuava a sperimentare, un po’ per gioco, un po’ per “stare bene”, un po’ per ritrovarsi, misurandosi con i tanti altri da sé. Ne sono venute le esperienze col teatro, la tv, la musica, la scrittura, la sceneggiatura, la pittura. Essendo interprete e autore, a un tempo. E ogni volta meravigliandosi del risultato: per qualcuno presuntuoso, per qualcun altro geniale, Faletti era semplicemente un attore. Alle prese con l’irrequietezza della vita e con le sue maschere, da indossare senza sosta. Fino a quel 4 luglio sbagliato, quando fu la morte ad avere la meglio. E a calare il sipario.
Tutto iniziò con gli sketch genuini, sarcastici, caricaturali, che lo resero un’icona della comicità anni Ottanta, facendo scuola in quella tv commerciale, giovanilista e sperimentale, incarnata dal mitico Drive In di Antonio Ricci: figure ispirate a un’Italietta semplice e borghese, da prendere in giro con la grazia di un ragazzaccio divertito, più complice che fustigatore. Una comicità permeata di leggerezza, in cerca di nuovi format e nuovi linguaggi. Tra i suoi partner indimenticabili Teo Teocoli, Massimo Boldi, Armando Celso, Gianfranco D’Angelo.
Personaggi da disegnare, sempre, con l’ingrediente che non doveva mai mancare: l’umanità. Un leitmotiv decisivo, in tutte le cose fatte, tanto da portarlo ad affermare: “non basta che chi porti in scena sia simpatico, gli devi dare anche un lavoro, un tic, una sorella. Solo così una macchietta diventa una maschera”. Il cabaret, come scuola creativa tout court.
Perché Faletti, infaticabile e dotato di una sensibilità speciale, ha continuato a dipingere personaggi, con zelo. Nella musica, per esempio: uno su tutti il giovane appuntato che si rivolgeva al “Signor tenente”, con una commovente pagina di diario in forma di rap, ispirata alle stragi di mafia che sconvolsero Palermo negli anni Novanta. Il brano si piazzò secondo a Sanremo, nel 1994, e vinse il Premio della Critica. L’album che lo conteneva, “Come un cartone animato”, si aggiudicò un disco di platino.
E poi, naturalmente, la scrittura. La grande vocazione che gli regalò una terza vita. Pagine e pagine di personaggi, spesso figli di un’America scoperta dopo i cinquant’anni, amata, indagata e raccontata nel suo coté più comune, nel suo cliché più cinematografico. L’americano medio, con i suoi vizi, le sue virtù, le abitudini, i peccati sotterranei. Gialli, thriller, racconti dalle trame intricate e con una dose d’umanità, ancora una volta, generosa: storie fatte di sguardi, di pelle, di emotività, di tensioni. Antonio D’Orrico lo definì “il più grande scrittore italiano”, lodando particolarmente “Appunti di un venditore di donne”, finalmente un romanzo dedicato all’Italia, fuori dal sogno americano.
E mentre tanti lo stroncavano o lo guardavano con una certa diffidenza – “Faletti scrittore? Insomma, era meglio il cabaret” – lui vendeva, senza sosta, conquistando il pubblico ma anche la critica, che non di rado ne sottolineò le qualità. “Io uccido”, il suo romanzo d’esordio, ha venduto 4 milioni di copie ed è stato tradotto in ogni angolo del globo. Nel 2005 portò a casa il Premio De Sica per la Letteratura, consegnatogli dal Presidente della Repubblica, e poco dopo il Premio letterario “La Tore isola d’Elba” (assegnato, tra gli altri, ad Andrea Camilleri e Aldo Cazzullo). Grazie ai suoi successi letterari, nel settembre del 2012 fu nominato presidente della Biblioteca Astense: a volerlo fortemente fu l’amico Massimo Cotto, assessore alla cultura del Comune di Asti.
La pittura, da circa tre anni, era la nuova maniera per impiegare con gioia il tempo, quello tra un libro, un talk, uno spettacolo, una sceneggiatura. Colori, tele, pennelli, una tecnica da inventare di sana pianta, un mondo da esplorare con la curiosità di un bambino di fronte ad un giocattolo nuovo. O come un attore che si cuce addosso un’altra parte, un’altra storia.
Di nuovo sul palco, stavolta a mettere in fila quadri vagamente astratti, non privi di buoni spunti, costruiti con senso del ritmo, del colore, della superficie. Combinazioni intelligenti di poesia, di ironia, di gioco e di mistero. Un mix che era la cifra, in fondo, di tutte le sue prove. Di tutta la sua vita.
Helga Marsala
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