Latifa Echakhch e l’architettura della memoria. Un incontro, a Venezia
È una delle artiste del momento Latifa Echakhch, in queste settimane al Centre Pompidou come vincitrice del premio Marcel Duchamp. E anche a Palazzo Grassi, tra i protagonisti della mostra che la Fondazione Pinault dedica al tema della luce. È proprio a Venezia che la incontriamo, a margine del suo talk con Alessandro Rabottini
Compie quarant’anni in questo 2014, ma è figura al di sopra del tempo Latifa Echakhch (El Khnansa, Morocco, 1974): volto da eterna bambina appoggiato su una presenza elegantemente taciturna, sfuggente. Ed è proprio la dimensione più intima del tempo, sviscerato in forma di memoria privata, ad essere carattere centrale del suo lavoro; un lavoro politico in un’accezione assoluta, che libera il messaggio dalla retorica della cronaca per interiorizzarlo, covandolo negli anfratti uterini dell’anima.
Latifa è in queste settimane a Palazzo Grassi, Venezia, ospite della collettiva “L’illusione della luce” (in corso fino al 1 gennaio 2015) con cui la Fondazione Pinault sviscera il tema della luce nell’arte contemporanea, partendo da Dan Flavin e arrivando a Philippe Parreno. C’è con due lavori: la riedizione dell’installazione À chaque stencil une révolution, presentata la prima volta nel 2007, e il delicatissimo Fantôme (Jasmin), nato a Beirut nei giorni caldi del deflagrare della Primavera Araba. Due opere emblematiche, che restituiscono il senso più profondo della sua ricerca, con il cortocircuito tra storia individuale e collettiva che scorre sulla tensione procurata da oggetti minimi, feticci sacralizzati.
Incontriamo l’artista nella sala che accoglie il suo intervento, a margine del talk che ha tenuto con Alessandro Rabottini al Teatrino di Palazzo Grassi, nuovo appuntamento con il ricco calendario di incontri con l’autore promossi dall’istituzione veneziana. Una conversazione che guarda alla sottile fisicità del lavoro di Echakhch, così spesso invece banalizzato e interpretato solamente alla luce del suo carico emotivo, sociale. “Viene sempre prima la materia, poi il concetto” confida l’artista, “sono una materialista, non una filosofa; posso cambiare la natura di una mostra anche due giorni prima dell’inaugurazione, se non ne sono convinta”. Da qui il senso di una dialogo che Rabottini conduce verso sentieri dichiaratamente architettonici, urbanistici, suggerendo una trasfigurazione tra paesaggio reale e paesaggio immaginato, tra ambiente di vita e ambiente della memoria. Si annida qui, allora, il meraviglioso mistero di Latifa: nella calcolata confusione tra diversi orizzonti visuali, nel ricordo di quell’appartamento nelle banlieu dove è cresciuta – aborto dell’utopia di LeCorbusier – e nell’immagine fresca delle periferie bombardate di Beirut. Alla disperata e struggente ricerca di un’idea di casa.
Francesco Sala
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