Lucio Fontana e Yves Klein. L’infinita liaison di due artisti cosmonauti
Al Museo del Novecento di Milano va in scena il rapporto d'amicizia, di stima e di scambio intellettuale tra Lucio Fontana e Yves Klein. Due artisti immensi, innamnorati dell'infinito. Due audaci esploratori dello spazio e delle forme. Il racconto della mostra, in un ampio video report
“La Torre di Babele è un esempio antichissimo della pretesa dell’uomo per il dominio dello spazio. La vera conquista dello spazio fatta dall’uomo, è il distacco dalla terra, dalla linea d’orizzonte, che per millenni fu la base della sua estetica e proporzione. […] L’opera d’arte non è eterna, nel tempo esiste l’uomo e la sua creazione, finito l’uomo continua l’infinito”. (Lucio Fontana, dal “Manifesto tecnico dello spazialismo”, 1951)
“Si dovrebbe essere come il fuoco indomito nella natura, gentili e crudeli; si dovrebbe essere capaci di contraddire se stessi. Allora, e solo allora, si può essere veramente un principio personificato e universale“; “La monocromia è la sola maniera fisica di dipingere che permette di raggiungere l’assoluto spirituale“; “La mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha né inizio né fine…” (Yves Klein)
Basterebbero queste frasi, basterebbe soffermarsi sul senso e la potenza di queste riflessioni, per comprendere quale fosse la linea di continuità e di contatto tra due autori immensi come Lucio Fontana e Yves Klein. Basterebbero quegli squarci sulla tela, che per primi aprirono il piano aniconico del quadro verso l’esperienza di uno sfondamento, verso un al-di-là senza paracadute né punti cardinali, o quei buchi nerissimi, disegnati come misteriose costellazioni lungo superfici riflettenti o sculture sensuali; e ancora basterebbe quel salto nel vuoto, inscenato in faccia al conformismo dell’arte e alla mediocrità delle cose, per spezzare ogni codice o catena, o quel blu astratto, assoluto, senza dimensione, summa metafisica del cielo, del mare e di ogni spazio invisibile, nascosto in fondo alla natura.
L’infinito. Basterebbe l’infinito per raccontare Klein e Fontana. E per capire il senso di un legame e la direzione di un esaltante viaggio, condiviso da un certo punto in poi. Legame che la mostra in corso al Museo del Novecento di Milano ha intelligentemente scelto come spunto di un’analisi approfondita: opere, fotografie, scritti autografi, filmati d’epoca, ricostruiscono questa storia di rispetto e d’amore intellettuale.
Si conobbero a Milano, nel 1957, alla Galleria Apollinaire, in occasione di una mostra di Klein. Per il più maturo Fontana, da anni punto di riferimento per la scena giovane locale, nome apprezzatissimo in patria e oltreconfine, si trattò di un’empatia immediata, di una folgorazione. Fu tra i primi ad acquistare uno dei monocromi del giovane artista francese. Nacque un’amicizia, uno scambio di idee, di lettere, di visite reciproche nei rispettivi studi.
E si radicalizzò, anche lungo la traiettoria di questa intesa, una maniera nuova di lavorare: il bisogno d’infinito, la volontà di rottura e reinvenzione, l’urgenza di esplorare altri universi e altri luoghi dell’io, definivano, in quegli anni, un’idea dell’arte come rovesciamento, come espansione incontrollata oltre, dietro, intorno all’oggetto-tela e l’oggetto-scultura, allo strumento-corpo o al soggetto-spazio. L’arte come esperienza non rappresentativa e non narrativa, di slancio interiore e di disciplina, di dismisura e di apertura, di dissoluzione e rigenerazione. L’arte come salto spericolato e come cosmologia nuova. Un balenare di vertigini poetiche e di acrobazie concettuali, disorientandosi nel blu. Infinitamente.
Helga Marsala
“Klein Fontana. Milano Parigi 1957-1962″
a cura di Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti
Milano, Museo del Novecento
fino al 15 marzo 2015
www.museodelnovecento.org
Video di Marco Aprile
coordinamento Helga Marsala
produzione Artribune Television
per Museo del Novecento / Electa
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