Confessioni d’autore. Marino Marini e la grande ossessione equestre
Un celebre artista italiano dipinge dinanzi alla telecamera, inseguendo alcune suggestioni ad alta voce. Anni e anni a scolpire e disegnare la stessa figura, più e più volte: un cavaliere a cavallo, come oggetto e soggetto di un’indagine estetica, simbolica, esistenziale.
UN’INTUIZIONE ALTA. CAVALLI E CAVALIERI
Decine e decine di versioni. Centinaia, negli anni. Quasi un’ossessione iconografica, per un’immagine arrivata da chissà dove: un ricordo d’infanzia, una visione ricorrente, man mano divenuta archetipo. Marino Marini (Pistoia, 1901 – Viareggio, 1980), fra i maggiori artisti italiani del Novecento, dipinse, disegnò e scolpì, col marmo e col bronzo, una serie infinita di cavalli e cavalieri. Spingendo l’iniziale realismo ruvido, sintetico, asciutto, verso una progressiva astrazione e geometrizzazione.
I corpi incastrati, come elementi di un’unica struttura a croce – con lo splendido dialogo tra la linea orizzontale del cavallo e quella verticale della figura umana – diventano nel tempo forme inquiete, contorte, allungate fino al parossismo, disarticolate, sofferenti. Maestro nella trasposizione drammatica di stati interiori in forme plastiche, con una frase divenuta celebre precisò la natura di questa sua vocazione: “Non è la mia arte ad essere espressionista, è il mondo stesso che è diventato espressionista”.
Marino Marino narrò, attraverso le sue articolazioni di forme, linee, piani, colori, le tensioni e i conflitti di un’epoca tragica, intitolata allo strazio della guerra e allo shock di grandi rivoluzioni industriali, tecnologiche, estetiche. Qualcosa che passava anche da soggetti comuni, rubati al reale e lavorati, trasformati, violentati, ripensati. Anche radicalmente. Fino a trasformarli nell’eco immediata di una condizione esistenziale e spirituale. Un cavaliere a cavallo, ad esempio. A proposito del quale disse: “È il mio modo di raccontare la storia. È il personaggio di cui ho bisogno per dare forma alla passione dell’uomo. Di più non riesco a spiegare, è un’intuizione più alta”.
CERCANDO LA FORMA, ALL’INFINITO
Su tutto questo si sofferma la puntata dedicata all’artista, tratta dal programma Rai del 1975 Come nasce un opera d’arte. Marini, intervistato nel suo studio mentre è intento a dipingere su un vetro un soggetto equestre, ragiona intorno al tema, sollecitato dal giornalista: “L’idea del cavallo e del cavaliere è nata tanto tempo fa. È una ricerca, il bisogno di una certa forma architettonica, che a un certo momento ti soddisfa lo spirito. E allora continui a cercare questa forma, a darle una realtà sempre maggiore”. Sempre uguale, ossessivamente, tra miriadi di variazioni possibili, cercando forme come se si trattasse di sfondare una parete, di forzare una soglia, di cavare un segno dall’infinito, di piegare la materia in direzione dell’immagine perfetta, definitiva. E dunque inarrivabile.
E cambia, la forma. Scultura dopo scultura, dopo pittura, dopo nuove immagini e ancora nuove. Una forma che “prima è gioiosa, poi diventa tragica, poi distruttiva”.
Cosa resta, in questa progressiva esasperazione iconografica, del rapporto tra uomo e natura? Cosa resta delle armonie segrete, delle corrispondenze silenziose e giuste, delle curve dolci e degli incastri fluidi? Poco o niente. L’enciclopedia minima di Marino Marini ha la grazia e la verità delle cose arcaiche, ma anche la sofferenza, le linee aguzze, le fenditure e i tormenti, gli allungamenti e le contorsioni, che spezzano l’idillio originario e aprono il sipario sul grande precipizio del secolo breve. Coma una cavalcata audace, tra la caduta e il volo.
– Helga Marsala
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