L’arte è un paradosso: una conversazione con Elena Bellantoni
L'evocativo progetto “Ho annegato il mare”, realizzato dall'artista Elena Bellantoni a Palermo come evento collaterale di Manifesta12 insieme a Ecomuseo Mare Memoria Viva (MMV), è il soggetto di un video-documentario. Ne pubblichiamo un estratto in anteprima insieme a una conversazione tra l'autrice e Neve Mazzoleni, co-curatrice del progetto insieme a Giulia Crisci
Cosa ti ha portato a Palermo?
Palermo è un richiamo antico. Sono di origine calabrese, ma non ho mai vissuto al Sud. Amo la Sicilia da sempre e inoltre, nel 2016, ho girato un lavoro a cui tengo molto, Maremoto, sulle coste siciliane che guardano l’Africa. Nel periodo della call di Manifesta, Giulia Crisci e io ci eravamo sentite per vari progetti: da tempo volevo lavorare sul territorio palermitano e Manifesta12 mi sembrava il contesto migliore per prendere la parola.
Come definiresti la Sicilia?
Considero la Sicilia un luogo di attraversamenti; un posto in cui c’è bisogno di restare, di ascoltare. Per capirla e per coglierla nella sua bellezza e decadenza. Quando si inizia un viaggio, si cerca sempre una parte di se stessi. Il mio viaggio verso Sud è partito da una visione: il mare annegato e tutto quello che quest’idea si porta dietro, ovvero la negazione e l’annegamento. La rimozione è un concetto molto forte che fa parte del nostro stare al mondo così come della nostra Storia italiana. Per questo ho deciso di fare una residenza e la realtà di Ecomuseo Mare Memoria Viva (MMV) mi è sembrata l’istituzione più vicina a questo mio desiderio. Poi ho saputo che anche tu avevi pensato a me per realizzare un progetto con loro.
Si, ho pensato a te quando il collettivo di MMV manifestava il suo interessamento per i linguaggi della contemporaneità, in un momento ancora lontano da Manifesta. Ti ho vista perfettamente a tuo agio in quel contesto, perché hai un rapporto delicato e autorevole con la memoria, perché lavori con differenti media e attraversi i territori che sono il tuo oggetto di ricerca, in assonanza con Ecomuseo. E perché sei lirica e profetica nella tua ricerca, capace di interpretare il senso del mare che custodisce MMV. La tua modalità articolata di attivazione artistica è neutrale, nel senso che il tuo corpo scompare, non usi costumi di scena o speciali cerimoniali. Eppure il tuo sguardo, la tua bellezza dolce sono potentissimi.
Tu parli di bellezza, ma io preferisco usare la parola intensità. La fatica dell’esserci, dell’esistere, se è reale e onesta, arriva. Il mio senso di stare al mondo emerge visivamente nei miei lavori: un’esperienza viva, forte, ironica e a volte con un senso tragico sul fondo. Metto in campo tutti questi elementi, non in modo violento, ma sottile; sono la chiave di volta su chi interagisce con me, che in questo modo può coglierli.
È vero che non compaio in primo piano nelle mie performance, seppure io sia presente. Preferisco essere regista, condurre, usare il mio corpo come uno strumento, dove l’interazione con l’altro e la sua reazione diventano protagonisti. Costruisco delle regole, come sai, semplici, ma stringenti, alle quali invito il pubblico ad attenersi. Mi calo nell’azione pur mantenendo una consapevolezza attiva per guidare il “setting”: sono cosciente, tengo il controllo, ma lascio emergere la spontaneità di chi ho di fronte.
La tua neutralità è ambivalente, se mi permetti. Perché sei bella, con occhi dolci e profondi, minuta quasi da sembrare indifesa, ma ti sottoponi spesso a sforzi sovraumani, fatiche fisiche senza far trasparire dolore. Eppure le ombre emergono. E allora leggo anche il dramma nelle tue azioni. Le luci e le ombre.
Penso sia la prima volta che qualcuno legga il mio lavoro in questo modo. Le luci e le ombre fanno parte della vita, nelle mie azioni forse trapela una ricerca di utopia e consapevolezza dell’impossibilità dell’andare e del fare. I miei esperimenti “a cielo aperto” potrebbero essere letti come dei tentativi di penetrare il mondo, che traduco con delle prove di resistenza e fatica. Metto in atto tutto questo per dare reale concretezza alla mia ricerca.
Io amo molto il cinema muto comico delle origini. In particolare la filmografia e l’attorialità di Buster Keaton, celebre per l’espressione stralunata e malinconica dei suoi personaggi.
Ecco! È chiarissimo a cosa ti riferisci. Un omino così piccolo, ridicolo, ma con grandi occhi laconici e una capacità di intraprendere azioni paradossali.
È così. L’arte è un paradosso, dramma e ironia insieme. Ha aspetti grotteschi. Provo a entrare nella realtà uscendo dalla mia intimità di sogno e ovviamente cado. La torretta che ho realizzato per Ho annegato il mare è stata il mio cavallo di Troia per spingermi verso Palermo, per entrarci in dialogo. La torretta si situa nel margine fra la mia visione e la realtà del territorio; diventa come una cerniera che unisce e mette insieme il mio personale tentativo di attivazione di reazioni con le persone che scelgono di partecipare, di intervenire nella mia immagine-azione.
Diciamo che come artista sono fortunata perché posso dichiarare apertamente lo “shock” di questa “gettatezza” (il dasein heideggeriano, per intenderci), manifestando apertamente nelle mie azioni performative questa discrepanza fra il mondo interno e il reale.
Tante volte mi hai detto che non sei interessata alla politica o a qualche forma di militanza tout court. Eppure nei tuoi lavori spesso prendi spunto da avvenimenti di attualità, come appunto per Ho annegato il mare, dove ti sei relazionata con la vicenda del Sacco di Palermo e la cementificazione della costa sud della città.
Credo che la dimensione personale sia politica. E il politico è poetico. Ho un orientamento di natura fenomenologica in filosofia e mi interessa l’approccio al linguaggio di Lacan. Le parole sono segni, definisco il mondo in cui siamo immersi… “Le parole sono importanti”, come urlava Moretti in Palombella Rossa.
Il personale è politico diceva un vecchio slogan degli anni della contestazione: credo che questo sia ancora vero. Il mio lavoro emerge da un’urgenza intima e reale, in questo senso militante, ma senza necessariamente dichiararne le motivazioni che lo muovono. Ad esempio, in Lucciole, un lavoro del 2015 ispirato alle “lucciole” di Pasolini, ho realizzato 4 dischi 33 giri in vinile dove, attraverso 40 interviste. Ho voluto raccontare la storia “emotiva” del Belpaese tra il 1975 e il 2015.
Il mio è un lavoro di stratificazione che mette insieme varie istanze e livelli a partire da quello personale a quello politico, dall’aspetto visivo-immaginativo al concettuale. L’opera nasce e si sviluppa nonostante me, segue in questo caso il fil rouge della mia storia privata, ma non è necessario che quest’ultima emerga o sia palese.
La questione della cementificazione d’Italia, del Sacco di Palermo – iniziato sotto la giunta Ciancimino/Salvo Lima – che nell’illusione della modernità ha nascosto le sue menzogne dolorose, mi ha turbato molto, soprattutto alla luce del recente crollo del ponte autostradale di Genova. Da Sud a Nord non ci sono differenze.
E qui vedo la tua sintonia con il materiale intangibile che custodisce MMV…
Credo che la storia con la “S” maiuscola si incroci con quella di ciascuno di noi: ne siamo tutti testimoni involontari perché la Storia ha il potere di modificare le nostre vite, per sempre… La storia siamo noi cantava De Gregori nel 1985. Entrando dentro MMV ho trovato proprio la conferma di queste idee, di quest’approccio alla realtà che ci attraversa.
Quando ho realizzato la torretta, non mi sono limitata a lasciarla al MMV in un solo luogo per quanto significativo, ma l’ho spinta per tutta la costa sud dal Foro Italico fino a Bandita passando per Brancaccio dall’alba al tramonto. Ci sono salita sopra, aspettando che venissero le persone. La torretta in qualche modo è diventata un “pulpito contemporaneo”, il luogo dello scambio e della parola.
Quali parole sono state “annegate” a luglio durante l’azione sulla torretta?
Quello che ho raccolto sono storie, racconti, sguardi sulla costa Sud. Ho giocato sul concetto di negazione che si trova dentro la parola “an-negare”. Non tutte le persone hanno voluto annegare qualcosa, cancellarla. In realtà sono salite sulla torretta perché volevano vedere finalmente il mare, con un altro punto di vista; se non altro, quello che hanno annegato è stato il loro modo precedente di guardare al mare, non credi?
Mi sembra ci sia una differenza sostanziale rispetto ai tuoi lavori precedenti: non hai dato parole. Hai lasciato che venissero da sole.
Effettivamente è la prima volta che realizzo un video completo delle mia performance, ovvero microfonando le persone, assumendomi quindi la responsabilità delle loro reazioni. Le parole sono emerse da sole, non c’è stato bisogno della mia azione fisica di trascrizione: le ho semplicemente registrate. Quando non è emerso la parola è emerso il linguaggio fisico, l’atto di salire e condividere con me una vista, una visione.
Il tuo lavoro sta prendendo nuove direzioni?
Sento che sono a un punto di svolta: sto percorrendo la via della semplificazione, sto asciugando e pulendo il lavoro. Ho iniziato a capire lo scorso anno durante Unidee, quando siamo stati a Scutari nella casa artistica di Adrian Paci. Anche in quella occasione mi sono immersa nel territorio: sono rimasta colpita dalle donne che vendono i giornali per strada. Per non farli volare via, li fermano con le pietre di cui Scutari è piena ovunque. Le ho raccolte man mano che le trovavo per strada, mettendole in una carriola per arrivare poi nella via del mercato principale – dove tutti vendono qualcosa – e, sedermi a terra con il mio mucchio davanti, provando a venderle.
Questo per dirti che sto lavorando su un’immagine secca, a cui arrivo dopo varie esplorazioni, che restituisco come chiave di lettura della territorio con cui mi confronto.
La torretta somiglia molto a una torre di salvataggio, una di quelle che troviamo sulle nostre spiagge; chi ci sale sopra è pronto a difendere e a custodire, attraverso lo sguardo, l’Altro. La struttura è un dispositivo d’incontro che mette in relazione lo sguardo, la città, l’oltre-mare, la memoria con la mia azione di natura partecipativa. La sua altezza di 2 metri e 80 centimetri è funzionale alla vista del mare negato dal cemento. È dotata di ruote, è quindi mobile e attraversa il paesaggio: lo scrive e lo segna con il suo procedere. L’ho trascinata per un giorno intero seguendo la linea dell’orizzonte e invitando chiunque volesse salire a un confronto con me sul mare annegato.
In “Ho annegato il mare” hai proposto una visione semplice e immediata. Ma man mano che ti abbiamo seguito nel processo, la molteplicità di messaggi si è dischiusa con la forza delle diverse letture stratificate, ma senza parole espresse.
Sì, penso per immagini. Ho avuto una “visione” immediata della torretta ancora prima del sopralluogo. Leggendo e immaginando la costa Sud, la torretta è emersa nella mia testa come dispositivo di visione. Non ho fatto altro che seguire quest’indizio.
Chi ha deciso di salire sulla torretta ha acquisito un punto di vista altro/alto che si è materializzato attraverso la visione del mare. Riflettere sull’acqua significa anche specchiarsi, avere visione di sé, guardarsi dentro e correre il rischio a volte di perdersi. Per questo, il mio invito a salire è stato un discorso “intimo”, che si è costruito attraverso un movimento tra il dentro e il fuori di sé.
Cosa rappresenta per te il mare?
Nel mio lavoro non faccio mai accenni espliciti alla mia biografia, ma il mare rappresenta la mia infanzia. Psicanaliticamente esso racconta l’affettività, il grembo, il liquido amniotico. Qualcosa di molto antico che a che fare con la mère, la madre/mare.
Da bambina trascorrevo l’estate nel capanno sul mare dei miei nonni materni in Calabria. Anni di libertà, di scoperte, in cui mi misuravo con il mondo e la natura. Il mare per me è sperimentazione, gioco, rispetto, ma anche attraversamento, orizzonte. Tutti elementi che sono confluiti nella mia poetica. È un elemento forte d’ispirazione non solo lirica, ma politica, nell’accezione che ti ho spiegato. Il mare abbraccia tutti senza distinzione di sorta, ci racconta del mare nostrum, il Mediterraneo. Il mare ha il suo linguaggio: può essere calmo o burrascoso. Ho voluto costruire il “luogo” dell’incontro con questo mare creando una situazione di natura poetica e surreale. Ovviamente quest’ultimo non si può annegare. La domanda che faccio contiene quindi un paradosso, significa cosa vorresti cancellare, eliminare, far morire?
Mi hai raccontato che hai voluto visitare alcuni quartieri di Palermo, aldilà della costa sud. Ad esempio Zen. Non voglio sapere cosa cercavi, ma cosa hai trovato effettivamente.
Diciamo che lo Zen è il primo quartiere che ho visto di Palermo, ci sono capitata per un progetto di Manifesta, il Giardino di Gilles Clément. Diciamo che quello che ho trovato, insieme a un discorso “complesso” di quella sera del Sindaco Orlando agli abitanti del quartiere, sono state le prime domande sul territorio palermitano. L’urgenza e la necessità di capire quello che avevo davanti. Palermo è follemente bella quanto tragica, ti seduce, ti conquista, ma allo stesso tempo ti mette in crisi per le sue contraddizioni. Ecco. Iniziare dallo Zen è stato un modo per mettere in moto tutto questo. Ho girato tutti i quartieri del Sacco, facendo foto, chiedendo in giro ed ho iniziato a farmi una prima idea del territorio che stavo attraversando. La “Repubblica dello Zen” ha accompagnato questa mia esplorazione.
Avevi pensato, insieme all’azione della torretta, anche a una specie di affissione funeraria nella quale si annunciava la morte del mare, dove il nome “Mare” compariva come quello di un defunto. Ma se muore il mare, cosa resta?
Se il mare muore resta niente. Ho giocato su questo paradosso dell’annegamento del mare come provocazione. È come se il mare in questo progetto divenisse una persona, o meglio una parte di noi. Il mare è un pretesto per dire, per esporsi. I pensieri emergono, vengo a galla appunto.
Il bianco e nero è l’elemento davvero nuovo della tua produzione. Ci vedo un chiaro riferimento alla cronaca nera: ai titoli di giornale e alle fotografie di quei momenti storici mentre maturava il Sacco di Palermo, al sangue nero degli omicidi. Questa ambiguità è inquietante. Anche perché il mare nero privo di scintillio, di luci, di sfumature di blu e verdi, di vita è paradossale. Perché questa scelta?
Palermo per me veste di bianco e nero, come dici tu. È il mare nero della cronaca che scorre per le strade della città; sono i film di Ciprì e Maresco che ho rivisto al teatro Garibaldi nei giorni di Manifesta; è il contrasto della città, in cui non sono riuscita a trovare i grigi, in cui ho deciso di eliminare il colore per non cadere alla sua fascinazione. La torretta è una “chiave” per decifrarla, per capirla. È la prima immagine che ho avuto nella mia testa camminando per il litorale palermitano, così ho provato a seguirla fino in fondo. Ho attraversato luoghi in cui un tempo il grano e gli alberi d’arancio crescevano forti e orgogliosi al sole, e dove ora, al loro posto, c’è il cemento che ha creato Panorums/Balermus. La città fondata dai Fenici, la città che si affaccia sul mare, la città in bianco e nero, la città saccheggiata e che parla dalle ferite delle sue strade. Come una scacchiera.
E la torre?
La torre nel gioco degli scacchi ha un ruolo particolare: difende il re ed effettua l’unica mossa che coinvolge nello stesso momento due pezzi presenti sulla scacchiera. Pensando a questa funzione, non posso non citare Pio La Torre, sindacalista illuminato collaboratore di Berlinguer che propose il reato di associazione mafiosa che prevedeva il sequestro e la confisca dei beni immobili. Nel 1976 La Torre fu componente della Commissione Parlamentare Antimafia che accusava duramente Vito Ciancimino, Salvo Lima e Giovanni Gioia di avere rapporti con la mafia. Alle 9:20 del 30 aprile del 1982 Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, venne assassinato. Nel video sentiamo, tra le tante, anche la voce di Fiammetta Borsellino, che ho intervistato come gli altri – non chiedendole di suo padre, ma semplicemente partendo dal mare e dal suo sguardo è emersa ad un tratto anche Palermo e la sua ferocia. Questa operazione diventa così anche un atto liberatorio e di denuncia, uno spostamento e una traduzione, una modalità per guardare in avanti.
Con Ho Annegato il Mare ho voluto creare il “luogo dell’avvistamento”, su cui ciò che viene visto, oltre al paesaggio, sono le parole che raccontano ciò che c’era e che ora non c’è più, ciò che oggi vorrei vedere o, al contrario, cancellare. Il colore di queste storie per me è in bianco e nero, è netto, senza sfumature.
– Neve Mazzoleni
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