L’arte è un delfino. Dialoghi per comprendere la contemporaneità
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell'arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta in esclusiva il suo progetto “L'arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull'arte e la cultura del nostro tempo. Da seguire su queste pagine oltre che sul canale Youtube del progetto. In attesa del primo dialogo, che pubblicheremo il prossimo 16 novembre e che vede protagonista l'artista e designer Davide Boriani, abbiamo chiesto all'autrice di raccontarci la sua iniziativa
Come nasce il progetto “L’arte è un delfino”?
L’arte è un delfino è un progetto di video-interviste sui temi emergenti dell’arte e della cultura del nostro tempo. È un’incursione nel contemporaneo attraverso uno sguardo molteplice, che vuole raccontare tutto ciò che di significativo e vitale riesce ad esprimere.
Le interviste sono rivolte ad artisti, scrittori, poeti, filosofi, musicisti, architetti, editori, galleristi, ma anche a scienziati, etologi e botanici; a tutti coloro, cioè, che hanno a che fare con la produzione di cultura. Insieme, discutiamo dei punti cruciali del loro lavoro e di come questo si inscriva in un paradigma nuovo, che ci impone di riformulare costantemente il nostro modo di vedere il mondo e, soprattutto, di dare forma al mondo.
Da dove nasce la necessità della ricerca di nuovi paradigmi?
Siamo nel pieno di una rivoluzione epocale che ha bisogno di essere narrata, elaborata, mettendo a confronto storie, idee, possibilità inesplorate. Non esiste ancora una letteratura sufficiente a raccontare il cambiamento che sta avvenendo. Si tratta di una vera e propria rivoluzione che ha a che fare principalmente con il nostro modo di conoscere la realtà che ci circonda. Ed è velocissima. Il progetto nasce dal bisogno di raccogliere sguardi sul cambiamento, attraverso il punto di vista privilegiato dell’arte.
Come mai questo titolo?
Da alcuni anni lavoro nelle scuole primarie, con il pretesto di un Laboratorio di Arte, che è però sufficiente a innescare un dialogo autentico con i bambini – che si rivela sempre di un rigore filosofico sorprendente. Durante i laboratori pongo ai bambini le domande a cui cerco, onestamente, una risposta che non so dare. Spesso si tratta di domande impossibili, dei koan zen, quasi. Chi siamo noi? Chi sei tu? Che cos’è il mondo? Che cos’è l’arte? Che cos’è la poesia? Le ipotesi formulate dai bambini sono tante e tutte molto autorevoli. Ed è interessante osservare che queste tematiche non li colgono quasi mai impreparati.
Una volta c’è stato Niko, il più ribelle del gruppo, che alla domanda che “Cos’è l’arte?”, mi ha guardato con piglio molto serio e ha detto: “Io lo so cos’è l’arte. Secondo me l’arte è un delfino”.
Inutile dire che, da quel giorno, per me, l’arte è inequivocabilmente un delfino. Niko ha risolto l’enigma poeticamente. La metafora mi convince anche perché l’arte è sempre stata per me una porta per accedere a mondi più grandi.
Il delfino è lo spirito guida, come lo sono tutte le specie viventi altre da noi. Ci aiutano a superare un po’ i limiti del punto di vista umano e solo umano sul mondo. Tutti i racconti, i dialoghi, che raccolgo sono, a modo loro, una sorta di corollario a questo enunciato indimostrabile. Quindi, aperti a tutte le possibilità.
Con quale criterio hai selezionato le persone da intervistare?
Non uso un criterio preciso. Nel senso che sto procedendo in maniera che definirei autopoietica, che si alimenta e cresce da sola. Ho cominciato dagli artisti che mi erano più vicini, con cui collaboro o, in qualche modo, ho collaborato. I prossimi saranno poeti.
Poi, vorrei ci fossero tante donne. Perché il mutamento di paradigma sarà completo solo quando si affermeranno con naturalezza la visione e lo spirito femminile. E ci saranno tante storie di amicizia con le altre specie, perché sono convinta che gli animali ci salveranno.
È un po’ come seguire delle tracce. Vedo o sento cose che stimolano la necessità di approfondire, che in qualche modo mi sembrano feconde, riproduttive, e vado. Il percorso, ormai, pare davvero comporsi da sé.
Come ti sei avvicinata all’arte?
Diciamo che più che essermi avvicinata all’arte, non me ne sono mai allontanata. Credo che la vicinanza all’arte sia un’attitudine in dotazione di tutti, fin dalla nascita. La vicinanza all’arte ci è connaturata, tutto poi sta a evitare che i condizionamenti sociali ce ne allontanano. Ed è un lavoro di resistenza notevole, soprattutto se fatto da soli.
Io, avendo un padre pittore, ho cominciato fin da bambina a usare il disegno come mezzo per comunicare e, soprattutto, per dare forma a i miei desideri. Questo lo fanno tutti i bambini, è una cosa primitiva. Il problema, che ho capito più tardi, è che però io che avevo una certa facilità nel disegno raccoglievo consensi da parte degli insegnanti, dei famigliari, altri bambini, che magari avevano altrettante cose da dire e a cui dare forma, e non lo facevano con la stessa facilità, erano definiti negati. “Non sai neanche tenere la matita in mano!”, dicevano così gli insegnanti. Come se il fatto di saper disegnare avesse, da solo, qualcosa a che fare con la complessità del fare artistico. Ecco, la lontananza dall’arte nasce da un’umiliazione. E allontanarsi dall’arte vuol dire allontanarsi da un mezzo potentissimo di realizzazione personale, di comunicazione profonda con gli altri e con il mondo. Ma anche rinunciare a qualcosa di più, ossia alla possibilità di essere parte determinante di un cambiamento.
Che formazione hai?
La mia formazione è stata piuttosto avventurosa e non è ancora terminata. Mi sono laureata in Architettura, con molta fatica, con una tesi sulle origini della multimedialità contemporanea. Sul rapporto tra arti visive, architettura e musica, in particolare attraverso l’opera di uno straordinario artista, musicista, architetto di origine greca: Iannis Xenakis.
Poi in maniera sotterranea ho sempre condotto una ricerca piuttosto selvaggia, che andava un po’ in tutte le direzioni: dalla letteratura alla musica, dall’arte visiva alla biologia, alla filosofia. Insomma, viviamo in un mondo straordinario e ricchissimo. Che non sappiamo bene cos’è e, per questo, non ci si annoia mai.
C’è qualche risposta in particolare che ti è rimasta impressa durante le interviste?
Le risposte degli intervistati sono tutte interessantissime. E sono tutte giuste: hanno tutti ragione! Anche se dicono cose spesso molto diverse. Non credo si tratti di un relativismo esasperato, no. Ma piuttosto della definizione di un ambito, di una nuvola di idee, che ci fa sentire l’atmosfera del tempo in cui viviamo, di questo passaggio epocale tra il ‘900 gli anni 2000.
Anzi, direi proprio che questa è un’altra cifra fondamentale della mia ricerca.
Io mi trovo proprio in mezzo a queste due generazioni diversissime, che hanno entrambe delle connotazioni molto forti. Da un alto ci sono i Maestri, che hanno lavorato nella seconda metà del secolo scorso, e dall’altra ci sono i nativi digitali. I trentenni e i quarantenni di oggi sono stati in qualche modo schiacciati da queste due emergenze molto forti. Qualcuno ci ha definiti “la generazione X”, cioè quella che ha subito tutti i contraccolpi derivanti dalla crisi che ha generato il cambiamento.
Ma tra gli intervistati ci sono anche tanti miei coetanei, che in realtà hanno una visione molto consapevole di quello che sta avvenendo, proprio perché hanno avuto la fortuna di essere nati in un mondo analogico e di essere entrati, a un certo punto, nel mondo digitalizzato.
Se dunque sono capaci di sfruttare questa consapevolezza, che in alcuni casi probabilmente ha anche rallentato i risultati personali, possono dare un contributo determinante per comprendere quello che sta accadendo. Perché, appunto, in più c’è una profondità e una capacità di elaborazione della realtà che in un’epoca di velocità e, spesso, di superficialità, tende a non esserci più.
Come mai hai scelto di fare interviste video invece che pubblicarle in forma testuale?
Mi interessa molto l’aspetto performativo di questo lavoro, l’incontro non mediato.
Innanzitutto, ho bisogno di incontrare gli artisti con cui parlo perché è l’unico modo per far venire fuori cose, in qualche modo, inaspettate e autentiche. Preparo gli incontri dedicandomi per sette intensi giorni a formulare il mio punto di vista sul lavoro dell’intervistato. Ma poi, durante la conversazione, tutto cambia. Vengono fuori idee nuove, talvolta per entrambi.
C’è anche un altro aspetto. Ormai viviamo sempre dietro a uno schermo. Le interviste non si fanno quasi più guardandosi negli occhi l’uno di fronte all’altro, ma inviando domande per e-mail, o in Skype. Va benissimo, perché accorcia i tempi di una comunicazione sempre più veloce e che necessita sempre di una maggiore quantità di contributi, ma a me non interessa tanto la velocità, ottenere delle risposte e basta. Mi interessa mostrare per un certo tempo, relativamente breve, chi sono le persone che sono dietro alle opere che vediamo nei musei, ai libri che leggiamo e alla musica che ascoltiamo.
Poi mi interessa lo spazio in cui vive l’artista, i suoi gesti, i suoi movimenti, il ritmo del suo racconto, la sua voce, la sua espressività. Perché nell’era digitale questi elementi della comunicazione rischiano la disintegrazione. Viviamo di frammenti.
I video poi, sono un mezzo molto più diretto.
Dacci qualche anticipazione sul futuro di questo progetto…
Penso che continuerò a fare interviste finché non avrò esaurito la necessità della domanda. E non credo accadrà presto. Del resto, fa parte del mio metodo di lavoro.
Mi sono accorta recentemente che in tutti i miei tentativi artistici c’è sempre stato il desiderio di raccogliere frammenti discreti che potenziassero un messaggio più grande, più complesso.
È un po’ come fare una collezione. La cosa richiede il tempo necessario e molta pazienza.
Per un anno ho collezionato aurore, che fotografavo col mio cellulare. Mettevo la sveglia dieci minuti prima dell’alba e uscivo di casa. Ho fotografato 366 aurore, perché era un anno bisestile. Era il 2016. Un altro anno volevo studiare il rapporto telepatico tra esseri umani e animali, e uscivo a fotografare tutti gli sguardi dei cani che incontravo per strada. Cioè, l’istante in cui il nostro sguardo si incontrava. Era un allenamento, un esercizio spirituale.
Le interviste sono naturalmente qualcosa di molto più complesso ma l’idea di raccogliere tante voci, tanti punti di vista sul tempo in cui viviamo è, in realtà, un esercizio potentissimo.
È come aprire contemporaneamente mille occhi sul mondo, anziché due. Come ascoltare una musica composta da linee melodiche tutte diverse ma che poi però, tutte assieme, magicamente creano un’armonia straordinaria.
C’è un verso del poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade che dice: Il tempo è la mia materia, il tempo presente, gli uomini presenti, la vita presente. Ecco, anche questa può essere la chiave per comprendere il senso di questo progetto. Immagino una sorta di grande archivio online di domande e di risposte (che però, poi, generano altrettante domande) sulle tematiche centrali dell’arte e della cultura contemporanea, attraverso la voce di donne e uomini contemporanei. Tematiche che definire vitali.
Nelle interviste ci sono alcune domande ricorrenti…
Che cos’è l’arte, che cos’è la musica, che cos’è la poesia…? Chiedo anche spesso quale sia il rapporto dell’intervistato con le altre specie viventi. Perché credo che il mutamento di paradigma passi attraverso una nuova consapevolezza nei confronti degli animali, delle piante e in generale del pianeta vivente. C’è un tema sotterraneo che quello della felicità, intesa in senso letterale di fecondità produttiva, tipica dell’arte.
Infine, c’è ovviamente una parte dedicata ai bambini. Chiedo a tutti di registrare un messaggio per loro. Spesso nel racconto delle cose ci si sofferma su cosa, dove, come e quando. Ma a me interessa soprattutto chiedere perché. Il perché è inesauribile. E I bambini sono maestri in questo.
Un’ultima cosa: c’è anche un corollario fotografico dal titolo Ma che cos’hanno in testa gli artisti? Invito gli artisti a scegliere qualcosa da mettersi in testa, sulla testa, vicino alla testa, che in qualche modo li rappresenti, e a farsi fotografare. Anche questo è un gioco verbo-visivo dedicato ai bambini.
Che altro dire? L’arte è un delfino cerca di costruire un linguaggio per accedere ad altri mondi. È una sorta di Arca. Però questa volta, a salvarci, saranno gli animali.
Cosa stai cercando, in fondo?
Cerco esperienze in grado di trasformare. Mi commuove che ci siano persone che passano la vita a cercare le parole giuste, le forme giuste, il suono giusto, il pensiero giusto. Non solo bello, ma giusto. E poi scopri che la cosa giusta è anche bella. È una lezione enorme, di una delicatezza smisurata. Ed è importante dirlo adesso, in questo periodo brutto, di parole brutte e forme brutte. Brutte perché ingiuste. La qualità delle parole, delle forme, del pensiero, non è un problema estetico. È un problema politico.
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