L’arte è un delfino. Intervista a Giovanni Anceschi
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista il designer Giovanni Anceschi.
Giovanni Anceschi (Milano, 1939) mi ha sempre amabilmente sgridato. Proprio come – amabilmente – sgridano i Maestri, anche quando non sei, ufficialmente, suo allievo. Ma mi ha anche detto brava, proprio come dicono brava i Maestri, alla prima occasione minimamente plausibile.
La prima volta che ci siamo incontrati non mi ha sgridato. Non ce n’è stato bisogno perché è bastata un’occhiata, severissima, mentre tentavo di argomentare pubblicamente un’idea sul senso del progetto, durante un convegno, il primo della mia vita, da dimenticare, come quasi tutte le prime volte. Il mio tentativo si arenò miseramente, subito dopo l’occhiata e la frase si sgretolò di colpo ripiegando in un silenzio imbarazzato che cercai inutilmente di recuperare. Ma, la prima volta, si attribuisce all’errore e all’incertezza un peso eccessivo. Senza sospettare neppure che, invece, tutto ciò che di davvero interessante si produca in un convegno ha a che fare con l’inciampo e con l’errore. Perché quell’inciampo diventerà tema esistenziale, come quando scrivi un romanzo per rispondere finalmente con la battuta brillante, perfetta, al ragazzo che ti piaceva a scuola e che ti si rivolge inaspettatamente, ma sul momento non ti è venuto niente.
IL PROGETTO È L’INCONCLUSO
Sul momento pensai, però, che non avevo alcun diritto di parlare di progetto, malgrado i miei anni di disperate fatiche nella facoltà di Architettura di Napoli, spesi a cercare di cucirne il senso, perché chi, come Giovanni, è stato alla Scuola di Ulm, ha coniato tutto un mondo di idee attorno alle quali ha anche sviluppato un sano istinto di selvaggia protezione. Sarebbe stato come andare da chi fa il mondo a dire: io ripenserei alla faccenda della gravità, mi piacerebbe sospenderla alle ore undici in punto del mattino e lasciar fluttuare i corpi per un quarto d’ora. Sarebbe bello (sarebbe bello?) ma non si può fare.
Sarebbe stato bello portare a termine la mia argomentazione, ma non si poteva fare.
Le occasioni per completare le frasi però tornano sempre. Vorrei, dunque, approfittare per concludere l’idea sul progetto che stavo pronunciando ma, essendomi a lungo concentrata sulla conclusione, non ricordo più com’era cominciata.
Dirò pertanto che, forse, il progetto è l’inconcluso. Ciò che non ha principio e non ha fine, perché è elaborazione febbrile, processo in divenire, sempre e comunque.
Anche nell’intervista Giovanni mi sgrida amabilmente e, poi, mi dice brava. Ci ho tenuto a non tagliare nulla, non per vanità (va bene, solo un po’) né per falsa modestia, ma per mostrare intatto il suo irrinunciabile spirito didattico. La natura generosa di ogni autentica didattica che, amabilmente, corregge e incoraggia.
Postilla: il convegno s’intitolava, in piena crisi economica, L’arte è l’origine della Ricchezza. Se fosse stato organizzato durante la guerra, si sarebbe chiamato L’arte è l’origine della pace. Se fosse stato organizzato durante un triste addio, si sarebbe chiamato L’arte è l’origine del ritorno felice (etc). Perché l’arte è una forza di rigenerazione. Se ridimensiona la gioia potenziale, anziché espanderla, non è arte.
LA SCUOLA DI ULM NELLE COSE DEL MONDO
Mentre scrivo ho sul grembo un grande libro, edito da Costa&Nolan, dal titolo La Scuola di Ulm, Una nuova cultura del progetto. Lo apro a caso e trovo l’immagine dell’esercizio del Corso Fondamentale: “Primadonna, Elementi di equilibrio percettivo, Giovanni Anceschi 1962/63, Docente Tomàs Maldonado”.
Credo moltissimo nelle coincidenze, che non sono mai frutto del caso ma di profondissima intenzione. Nell’intervista, l’esercizio della Primadonna sarà bene illustrato. E, nel libro, ho anche trovato il conforto alla mia idea di progetto come inconcluso, attraverso le parole – nientemeno – di Tomàs Maldonado: “Capita a volte di sentir parlare del design come di una formula magica con la quale si debbono risolvere meravigliosamente tutti i problemi dell’ambiente che ci circonda. E tuttavia l’aspirazione a risolvere l’intera esperienza umana nell’ambito del design inteso come una teoria dell’essere è una aspirazione vana. Dal cucchiaio da caffè alla città: siamo d’accordo, ma senza farci irretire da una visione troppo uniforme della realtà. Non esiste il cucchiaino da caffè definitivo, perfetto, così come non esiste la città perfetta, definitiva. Quel che ci può essere realmente sono le approssimazioni al migliore dei cucchiaini da caffè possibili e delle approssimazioni alla migliore dell città pensabili…”
C’è tutta una parte della storia del design che è fonte di continua meraviglia, come aprire uno scrigno di saperi profondi, come attingere a una morfologia generale per ogni particolare.
Che cosa potesse essere la Scuola di Ulm, in questo senso, me lo sono chiesto a più riprese, tutte le volte che ho dovuto cimentarmi nel giudizio sul buono di un oggetto. Quella chiarezza lucida, democratica ma pure esclusiva, che si faceva istituzione.
Cosa potesse essere per chi era lì? Che cosa è stata, poi? Come ha gemmato quel sapere? E dov’è adesso l’effetto di quel mondo, in questo piccolo mondo affollato di sguaiati segni, impropri, sciatti? Ciascuno di noi ha una mitologia della propria formazione, a cui attribuire – a torto o a ragione – successi e fallimenti. Ma cosa poteva voler dire studiare a Ulm?
Nel libro leggo degli esercizi del corso “fondamentale” che diventerà, poi, Basic Design: quelli di respirazione e meditazione che Iohannes Itten imponeva agli allievi prima delle lezioni sul colore.
E dell’esercizio d’imprecisione o dell’effetto di sfocatura prodotto con mezzi esatti, di Tomàs Maldonado. E della teoria dei grafi, ossia della visualizzazione di processi motorii e funzioni come tecniche grafiche, o dell’esercizio di ottimizzazione, leggibilità massimale di numeri col minor numero possibile di fonti luminose di Anthony Fröshaug o degli studi di transizione morfologica di Georg Leowald. Dove è finita il bisogno di esercitarsi così prima di tracciare un qualunque segno al mondo?
C’è, ancora, da tenere vivo il discorso sulla formazione del progettista, del processo di acquisizione di quella competenza formale che mi è parsa infallibile, in certe circostanze.
Quello del Bauhaus prima, della Scuola di Ulm poi, è stato un mondo fatto di uomini che hanno affinato quel senso interiore che informa la produzione con infinita intelligenza. La produzione di oggetti, opere, processi, idee.
Il mio amato Xenakis diceva che la bellezza è l’intelligenza contenuta nelle cose. Che è già tanto, tantissimo, dal momento che di cose stupide, stupidissime, la produzione satura lo spazio vitale. Ma l’intelligenza che c’è in un fiore, nella levigatura del ciottolo, nel pattern dinamico di uno sciame, nella struttura del nido o della conchiglia, nella crescita, nella germinazione, nella metamorfosi, è la chimera a cui tende ogni autentica progettazione.
Non possiamo accontentarci di qualcosa di meno.
UN’INTERVISTA IN DUE TEMPI
Questa è un’intervista in due tempi, ma avrebbe potuto contenerne molti di più.
Il primo è l’indagine incondizionata del delfino, con la struttura solita delle domande sospese nel salto, in cui l’esperienza artistica, progettuale e teorica di Giovanni Anceschi, dall’Arte Cinetica all’insegnamento del Basic Design, è sondata in molte direzioni.
La seconda nasce dalla scomparsa, recente, di un uomo che avrei voluto incontrare e con cui avrei voluto dialogare a lungo, ma ho fatto tardi.
L’uomo è Tomàs Maldonado, il Maestro di Giovanni e il Maestro di tutta una generazione di designer. Allora, sono andata a raccoglierne il ricordo. Perché, davvero, la speranza progettuale resti viva. Senza retorica, con convinzione programmatica.
Andiamo a cercare i Maestri, parliamo con loro, elaboriamoli, superiamoli, magari davanti a un caffè, con la consapevolezza che si può girare lo zucchero nella la tazzina con una delle possibili migliori approssimazioni di cucchiaino da caffè, in uno delle possibili migliori approssimazioni di spazio abitabile, in una delle possibili migliori approssimazioni di sistema ambientale e relazionale, in un processo inconcluso e irriducibile di miglioramento che è il margine di libertà del più autentico slancio vitale, in cui il progetto è l’attitudine centrale per armonizzarci al mondo senza più ferirlo.
E non accontentiamoci di nulla di meno.
– Stefania Gaudiosi
L’arte è un delfino. Leggi l’intervista a Stefania Gaudiosi
L’arte è un delfino. Intervista a Davide Boriani
L’arte è un delfino. Intervista a Giacomo Guidi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati