L’arte è un delfino. Intervista a Miroslava Hájek
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista la storica dell'arte Miroslava Hájek.
La Storia è sorprendente, vista con gli occhi di chi l’ha vissuta.
Miroslava Hájek (Brno, 1947) arriva in Italia poco più che ventenne, assieme alla sorella Ivana. Doveva restare per poco, ma durante il soggiorno le comunicano che se fosse tornata nel suo Paese, in Cecoslovacchia, sarebbe finita in galera. Era stata condannata in contumacia, accusata di essere l’istigatrice dei suicidi di protesta. Era il 1969 e, alcuni mesi prima, a Praga, era accaduto un fatto terribile: lo studente ventunenne Jan Palach si era dato fuoco in Piazza San Venceslao, come gesto estremo di protesta contro l’occupazione delle truppe sovietiche che avevano stroncato la Primavera di Praga, la rivoluzione democratica reclamata dal popolo. L’accaduto aveva sconvolto l’opinione pubblica (al funerale di Palach c’erano circa 600 mila persone) e il governo aveva intrapreso una campagna diffamatoria nei confronti dello studente e, poi, nascosto il suicidio di altri sette giovani. Tra questi c’era anche Vladimir Vladek, il fidanzato di Miroslava.
Ma lei, Miroslava, era una ragazza di vent’anni, colpevole (colpevole?) solo di aver preso in giro, con i suoi amici artisti, l’ottusità del regime, stampando le tessere di un’associazione fittizia, l’Associazione dei Moribondi, che imitavano quelle del comitato centrale, con all’interno la scritta: “Si prega la cittadinanza di non restituire alla vita il proprietario di questa tessera”. Fu proprio una di queste, ritrovata nelle tasche di un giovane poeta ubriaco, a creare l’equivoco che aveva condotto le indagini fino a lei.
UNA LUNGA CARRIERA A FIANCO DEGLI ARTISTI
Se dovessi pensare a un’opera d’arte che dica in una sola immagine quello ho imparato dal racconto di Miroslava, penserei di certo a un negativo-positivo di Bruno Munari. Quello a forme curve del 1950, in particolare, uno dei primi, che rimanda alle forme mutevoli del concavo-convesso (ma nelle due dimensioni), e ricorda il T’ai Chi T’u che rappresenta lo Yin e lo Yang. Miroslava, che ha raccolto il corpus sostanziale dell’opera artistica di Munari, me lo mostra e mi dico che, nella vita, scegliamo spesso le forme che ci assomigliano.
Lo Yin e lo Yang, appunto. Da quella condanna, che l’ha costretta a restare in Italia, nasce, infatti, anche l’avventura straordinaria del Centro Culturale UXA, a cui Miroslava dà vita a Novara, insieme a un gruppo di amici. Qui organizzerà tanti eventi, collaborando con molti artisti, sebbene a lungo le fosse negato il permesso di lavoro e, neanche a dirlo, da rifugiata politica avrebbe dovuto provvedere autonomamente alle spese di mantenimento (la logica burocratica non fa una piega).
Ma erano tempi molto diversi da quelli di oggi, dice Miroslava, gli artisti erano tra loro solidali. E racconta tutto col sorriso di chi è indulgente nei confronti della bizzarria, talvolta tragica, del circo umano, ma senza concedere molto alla stupidità.
Il suo lavoro è stato guidato da un intuito infallibile su quel che vale la pena salvare (come raccogliere un cucciolo abbandonato, dice) di tutto questo incessante produrre segni e forme. L’etica come dimensione irrinunciabile del fare artistico (e come suo specchio), la condizione umana e il superamento del limite, l’autenticità e il coraggio dell’onestà intellettuale, per nulla scontato.
Nel tempo, seguirà il lavoro degli artisti che utilizzano le nuove tecnologie e i nuovi media: Bruno Munari, Franco Vaccari, Gianni Colombo, Jean Tinquely, François Morellet, Walter Gier, Joseph Beuys. E il lavoro delle artiste donna, come Carol Rama, Bela Kolářová, Uta Peyrer, Meret Oppenheim, Dadamaino, Grazia Varisco. Si interesserà al colore nella pittura astratta e all’arte concreta attraverso il lavoro di Romolo Romani, Antonio Calderara, Jorrit Tornquist, Mario Ballocco, alla nuova figurazione (Andrea Granchi), alla poesia visiva (Sarenco, Eugenio Miccini, Arrigo Lora Totino, Franco Ravedone), alla scultura (Karl Prantl, Jiri Seifert, Nanni Valentini, Marco Bagnoli, Vladimir Skoda).
Ha organizzato tantissimi scambi tra l’Italia e le attuali Repubblica Ceca e Slovacchia, e ne organizza tuttora.
MIROSLAVA, MUNARI, BAMBINI E GATTI
Da qualche giorno è terminata la mostra dedicata a una parte del lavoro artistico di Bruno Munari, organizzata dalla Fondazione Plart di Napoli, insieme alla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, a cura di Miroslava Hájek e Marcello Francolini (e un’altra mostra è in corso a Praga, sempre a cura di Miroslava, sull’opera di Pavel Korbička).
Miroslava ha avuto un ruolo centrale nella storia di Bruno Munari.
C’è una parte dolente in tutto questo, che ha a che fare con il rammarico dell’artista per la solitudine della creazione e che chiarisce bene quanto sia importante che il lavoro artistico sia accolto da uno sguardo sensibile e leale. Un artista sopravanza il tempo di almeno cinquant’anni, dice, e il compito del critico è fare un ponte tra l’opera e il mondo, di alleviare questa solitudine.
A sentirlo oggi sembra incredibile, ma Munari lamentava disattenzione verso la parte più vitale del suo lavoro, che riguardava l’arte (non il design, non la grafica, ma l’arte), per quegli strani, poetici, giochi spaziali che non erano quadri, non erano sculture e, addirittura, talvolta si muovevano. Non per tutti era facile intuire che in quegli oggetti c’era il germe di tutta l’arte a venire.
Che cos’è Munari?
Noi abbiamo verbi in are; in ere; in ire; non abbiamo verbi in ari. Munari è un’eccezione ed è un verbo attivo che ha solo l’infinito. Scriveva Ernesto Nathan Rogers. Il più grande limite alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire, diceva Munari.
Forse bisognerebbe amare di più chi ci insegna a guardare attraverso, mi dico. Anche senza capire. Perché capire non si può con gli strumenti soliti. È necessario non accontentarsi dei propri occhi e aprirsi a cose inaudite. È necessario avere fiducia e rendersi disponibili alle continue metamorfosi che l’arte innesca.
Miroslava lo ha capito presto e non ha avuto remore nel darsi all’avventura intellettuale di rischiare, di schierarsi, di fidarsi di un’intuizione senza calcolo e ipotizzare una genialità da dimostrare.
Procedere con infinita curiosità, si potrebbe anche dire (basta dare un’occhiata alla pagina Facebook di Miroslava per rendersene conto).
In tempi come questi, simili slanci (rari) ridanno speranza.
Munari – ancora – diceva anche che chi non capisce i gatti, non capisce i bambini.
Si potrebbe ricominciare anche solo da questi rapporti per un’ipotesi di felicità.
Miroslava e io abbiamo, dunque, in comune molte cose, oltre all’amore per un certo tipo di arte (per esempio, l’impatto dei peli di gatta bianca sugli abiti scuri, il fatto di dare per scontata la telepatia, ecc…
Scusatemi se lascio la parentesi aperta. (Cit.)
MINUSCOLO ANEDDOTO FINALE
Io: “Miroslava, alla fine faccio sempre una foto dell’intervistato con qualcosa in testa…”
Miroslava: “Va bene, mi metto in testa la gatta”.
È stato subito amore.
Buona visione.
– Stefania Gaudiosi
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