L’arte è un delfino. Intervista a Leonardo Caffo
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista Leonardo Caffo, filosofo, docente e fondatore di Waiting Posthuman Studio
Quando, la scorsa estate, mi sono trasferita nei pressi del bosco, ho ripreso tutta, o quasi, la letteratura che pensavo potesse aiutarmi a ricostruire il senso di una scelta perlopiù istintiva.
Avevo incontrato Walden o la vita nei boschi, di Henry David Thoreau, in un tempo diverso, meno necessario, e quello che prima mi era parso un gesto poetico intriso di epica romantica – ritirarsi in solitudine, nel bosco, a ricostruire dal principio tutto il senso dell’essere al mondo – mi sembrava, ora, una soluzione urgente. Qualcosa o qualcuno, dentro di me, aveva deciso in favore di un nuovo vicinato selvatico e animale.
Pare che le decisioni, tutte, avvengano a un livello pre-cosciente. Già nel 2008 il Max Planck Institute di Lipsia aveva pubblicato uno studio che dimostrava come tutte le determinazioni di un gruppo di volontari avvenissero prima ancora che i soggetti stessi se ne accorgessero. Di fronte a una scelta, dall’attività cerebrale registrata alcuni secondi prima, si poteva dedurre cosa esattamente ciascuno di loro avrebbe fatto, mentre era ancora intento a riflettere sulla decisione da prendere. La coscienza, poi, provvedeva semplicemente a darne spiegazione. Ma chi o cosa aveva deciso? Chiamiamolo, solo per un attimo, istinto. E diciamo pure che basterebbe questo a sgretolare il castello di sabbia su cui poggia la nostra superbia, quella dell’umano che, vivente tra i viventi, si è autoproclamato solo depositario di anima e coscienza (Hammer Nailing Itself, Il martello che inchioda se stesso, di Malcolm Fowler è un’opera visiva che rende bene questo paradosso).
Per secoli, abbiamo esiliato l’istinto, o quel qualcosa di profondo che ci anima e decide, nelle regioni straniere dell’animalità, perché una cosa così potentemente sovrastante non poteva, certo, avere la meglio sul sacrosanto libero arbitrio di ciascuno. Alla ragione (all’artificio della spiegazione), che non è mai bastata a contenerci, fu affidato il legittimo governo dell’agire. E, visto lo stato generale delle cose, dovremmo forse considerare la possibilità di un errore.
IL BOSCO INTERIORE
Ma torniamo a Walden e a Thoreau. La prima edizione del libro, che ha influenzato generazioni di scrittori, pensatori, cineasti, soprattutto nella controcultura statunitense, fu pubblicata nel 1845.
Leonardo Caffo ha lavorato tanto nel tentativo di restituirgli senso nel contemporaneo, portando ovunque, nel suo lavoro, il potente spirito dell’esperienza filosofica che contiene, a partire dal bellissimo libro Il bosco interiore. Per una vita non addomesticata in compagnia di Henry D. Thoreau (Sonda, 2015), fino allo spazio milanese di cui è direttore artistico (che si chiama Walden, appunto) in cui è possibile sperimentare gesti e spazi esemplari di una “specie nuova” (ne parleremo tra un po’).
Traslocando, ho tenuto fuori dagli scatoloni, nello zainetto delle cose importanti, Walden e un libro di Leonardo, di cui sapevo ancora poco. Non avevo capito niente di quanto fossero intrecciati. E mi piace l’idea che, questa volta, ribaltando la logica lineare delle cause e degli effetti, sia stato proprio Thoreau a portarmi fino a lui.
FRAGILE UMANITÀ, IL POSTUMANO CONTEMPORANEO
Fragile umanità di Leonardo Caffo (Einaudi 2017) è un libro epocale. Cento pagine di speranza, che nasce da una sconfitta. La sconfitta è quella, evidente, di Homo Sapiens. La speranza, timida al principio ma sempre più incalzante, è quella di una specie nuova, il postumano contemporaneo, in grado di resistere nell’abbandono, uscire dalla cieca solitudine dell’umano, abbracciare la propria e altrui animalità, che è in fondo la sua stessa, selvaggia, umanità, e rifiorire.
La moralità che non riconosca un limite invalicabile nel corpo del vivente – di tutto il vivente, che è sensazione e coscienza, piacere e dolore, sempre, anche quando con lo capiamo – è sottoposta a una profonda ridefinizione. La revisione dei comportamenti è così stringente che ciò che fino a un momento prima sembrava legittimo, smette di esserlo. L’umanità che segue all’antispecismo è un cantiere aperto, scrive Leonardo (che meraviglia aprire incontaminati spazi di senso).
Il primo esercizio utile è chiedersi se sia possibile, finalmente, pensare al di là dell’umano, e sulla possibilità di questo pensiero ulteriore, costruire immaginari nuovi.
Quando ho cominciato a lavorare a L’arte è un delfino, dicevo che una delle cifre del progetto fosse proprio il tentativo di superare i limiti dell’umano, attraverso lo sguardo-guida del delfino. È una pratica prodigiosa guardarsi con altri occhi, si scoprono universi. È un viaggio in regioni feconde, che solo per sbaglio non abbiamo visitato. Ma anche lasciarsi guardare è una vertigine che apre brecce nel profondo. Chi ha accanto animale lo sa, cane, gatto, asino, cavallo, pecora o maiale, o qualunque altro, che non sia stato piegato ad altro scopo che non sia l’amicizia. Ma lo sa forse ancora di più chi ha, per un attimo, incrociato il selvatico. Che voragine è lo sguardo dell’animale posato sulla nostra postura addomesticata, sulla nostra fragilità? La memoria di quale mondo ci consegna, rapido, nella sua fierezza e nella sua grazia? A quale incolmabile distanza scaraventa il centro illusorio su cui abbiamo poggiato il peso del nostro corpo insicuro?
CONTRO LO SPECISMO
A quegli sguardi potenti e muti abbiamo contrapposto il fucile e la mannaia, e ho sempre pensato che se solo gli animali avessero voluto, avrebbero potuto eliminarci senza sforzo, imparando ad aggirare l’arma, così come hanno deciso di evitarci, abitando la vastità della notte e disertando il nostro piccolo giorno dalle ore contate. Non hanno voluto. Non hanno nemmeno considerato l’ipotesi, nella loro infinita, dolente, bontà.
“È una sorta di arca. Però questa volta, a salvarci, saranno gli animali”, dissi pure, ma senza saperlo spiegare. Leonardo ce lo spiega perfettamente, e il suo messaggio è forte e chiaro.
Il superamento dell’antropocentrismo è il superamento dello specismo, l’accettazione che l’uomo sia della stessa sostanza di tutti gli esseri viventi.
L’umanità che emerge è incerta perché imprevedibile: ci siamo costruiti in opposizione all’animalità – la nostra storia, inevitabilmente, coincide con il nostro distanziarci dagli animali e dalla natura. L’antispecismo in questo senso è la demolizione del recinto di cui non abbiamo mai visto, se non per esperimento mentale, l’esterno. Tocca, a questo punto, immaginarlo, scrive.
E per immaginarlo cerca un’alleanza, che sia in grado di ridisegnare lo spazio interiore ed esteriore del postumano contemporaneo, nell’incontro fecondo di filosofia, arte e architettura.
FILOSOFIA, ARTE E ARCHITETTURA, UN’ALLEANZA PER COSTRUIRE FUTURI
Costruire futuri (Bompiani 2018), scritto in collaborazione con Azzurra Muzzonigro, è un osservatorio sulla dimensione simbolica e progettuale che deve immediatamente confrontarsi con i temi urgenti con cui saremo alle prese tutti, sempre di più, e che derivano direttamente dal residuale decadimento del sistema capitalistico in cui Homo sapiens ha prosperato, fino a quando quello stesso sistema gli si è rivoltato contro. Le grandi migrazioni dovute al cambiamento climatico, la scarsa vivibilità delle metropoli, il collasso di interi ecosistemi e l’estinzione di centinaia di specie viventi, sono la manifestazione eclatante di questa apocalisse autoinflitta.
Gli artisti devono intervenire adesso, nel passaggio. Devono progettare e modellare la dinamica evolutiva che, una volta compiuta, abbandonerà perfino lo strumentario dell’arte, perché a quel punto tutto sarà arte.
È chiaro che l’umano, così come lo abbiamo finora conosciuto, sopravvive a fatica all’interno di un sistema di credenze decaduto. Ne sentiamo sulla pelle, ancora, il residuo doloroso. Lo vediamo esibirsi mostrando i brandelli di una bandiera logora, fatta di egoismo, grettezza, violenza, distruzione, paura e odio. Ma sono le ultime, tristi battute. Dobbiamo (dobbiamo!) confidare in una nuova specie, una specie ibrida di cui già si intravedono i germogli, e che in maniera sotterranea ha attraversato tutta la storia dell’umanità. Una specie che abbandoni di colpo gli usi decaduti di una civiltà che ha ritualizzato la sciagura ai danni di tutto ciò che non orbiti attorno al nucleo solido dell’ego e che senta per istinto la continuità con la vita circostante che abbiamo tenuto distante. Una specie capace di generare nuovi linguaggi aperti, in grado di dialogare con il vivente, che è il vivente profondo che ci accomuna tutti. Perché si continuerà a organizzare la realtà sulla base di un grosso deficit di amore, fino a quando si vorrà ignorare che la nostra anima appartiene all’ultimo dei fili d’erba.
ALLA RICERCA DI NUOVE POSSIBILITÀ ESISTENZIALI
La metafora potente, che forse soltanto metafora non è, della speciazione postumana ci mette di fronte a una scelta che spetta all’individuo, sebbene ricada su tutti, umani e non umani (e quel che è più interessante è che probabilmente sarà la prima speciazione non subita, ma volontariamente indotta). Ci mette di fronte all’eventualità di sperimentare nuove possibilità esistenziali a partire dalle immagini del quotidiano, dai suoi spazi, dai suoi gesti, dai suoi riti. Se tutto quello che finora abbiamo prodotto e consumato è servito a compensare una incolmabile mancanza, è bene interrogarsi sulla natura di questa mancanza, finché siamo in tempo, e ricalibrarsi attorno al colmo di nuovi valori vitali che informino ogni nuova produzione, al di là dei quali tutto sarebbe abuso.
“Si alzi (l’uomo) a ricostruire la terra che non era sua, era di tutti, e solo allora osi parlare dei suoi strazi”, scriveva Anna Maria Ortese, perché “tutta la terra è una ferita sola”.
Leonardo Caffo è giovane e fa tante, importanti, cose al mondo. Il Waiting Posthuman Studio, di cui è fondatore e curatore, è solo una delle tante forme che prende il suo incedere magmatico (sarà per via del vulcano che sovrasta Catania, la sua città natale).
Anche questa intervista è stata velocissima, nel suo farsi, tanto sembrava necessaria, eppure viene da lontano, da pietre messe in tasca nel corso della vita, a futura memoria. Ma, all’improvviso, il futuro è adesso e non possiamo più ignorarlo e, visto da qui, ha tutta la freschezza della nuova nascita. È questo nascere, tutto interiore, che dobbiamo proteggere. Affinché, fuori, resti spazio sufficiente al puro fiorire.
Buona visione.
– Stefania Gaudiosi
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