Tre muralisti a Shenzen. Un documentario sull’opera di Run, Hitnes e Jiamin Hu
Verrà presentato in anteprima al Corto Dorico Film Festival di Ancona il docufilm “What I Do”, un racconto approfondito dell'esperienza cinese di tre street artist. Abbiamo intervistato Giacomo Bufarini RUN, artista e ideatore del film
Cosa si prova a dipingere in una megalopoli cinese di 15 milioni di abitanti, una città in piena metamorfosi, che da antico borgo di pescatori si è trasformata completamente, in preda a una febbrile crescita? Lo hanno fatto tre muralisti di respiro internazionale – Run, Hitnes e Jiamin Hu – chiamati per la Biennale di Architettura del 2018 a dipingere sulle facciate delle costruzioni, rielaborando, con le proprie personali visioni, segni, simboli e pulsioni di un’umanità in continuo movimento. Lo racconta un docufilm di Giacomo Bufarini RUN (Ancona 1979; vive a Londra), dal titolo What I Do, diretto da Gastone Clementi, con musiche originali di Francesco Bufarini e Salvatore Rossano, Davide Barca, Gianni Bonifazzi, che sarà presentato in anteprima dal XVI Corto Dorico Film Festival, ad Ancona dal 30 novembre fino all’8 dicembre, in concorso tra sei finalisti.
Per l’occasione abbiamo fatto qualche domanda a Bufarini, ideatore del docufilm, una pellicola che parla della città come contenitore di inesauribili visioni ma anche di incontri inaspettati; della pittura che amalgama tutto mettendo in relazione segni e simboli opposti, tradizioni radicate e quartieri fumosi, grattacieli e un’umanità frenetica che rincorre il progresso. Mentre agli artisti ancora spetta il compito di un messaggio non allineato.
Negli ultimi anni hai accumulato importanti esperienze internazionali: in Marocco hai dipinto il più grande murale del nord Africa, e ti sei confrontato con una megalopoli come Shenzhen. Come è iniziato tutto questo?
Ho iniziato a dipingere graffiti e interessarmi alla cultura underground in una piazza, quella di Ancona, frequentata da gente brava, per cui la ricerca della “fama” era una continua competizione. Mi piaceva l’assenza di filtri, l’essere a tu per tu con la strada. Sono stato tra i primi a dipingere il figurativo sui muri insieme a Blu, Dem, Ericailcane; la mia cifra, però, da sempre, è essere un outsider. In una cultura dove l’appartenenza a un gruppo sembra far parte di una poetica, io ricerco un’apertura totale a tutto ciò che si può essere. E voglio mantenere la libertà di cambiare.
Quando hai capito che poteva diventare una cosa seria?
Spostarsi a Londra è stato fondamentale. Dal punto di vista del segno mi sono distaccato dall’influenza di mia madre, anche lei pittrice, e ho assorbito un mondo multiculturale lasciandomi trasportare dal fascino dei volti delle persone che incontravo. Ho pensato per la prima volta di essere un artista, che per me che venivo da una società artigiana e operaia era un mestiere non contemplato, seppure vi si riconoscesse il valore del lavorare con le mani. Il 2008 è anche un anno fondamentale per la Street Art: viene presentata per la prima volta alla Tate Modern, e ciò segna l’inizio della separazione di questo modo di esprimersi dall’illegalità e forse la sua fine. Nasce tra gli artisti una controversia: essere dentro o fuori dal sistema?
Tu cosa hai scelto?
Quella di essere vero, essere me stesso. C’è un’etica connessa a questo nuovo linguaggio artistico: bisogna rimanere spontanei, usare l’arte come strumento esplorativo per sfondare barriere e andare sempre avanti, fino al prossimo limite, dentro o fuori se stessi. Si può scegliere con chi lavorare e a volte si può anche dire di no.
Cosa rappresentano le tue figure?
I profili che disegno sono matrici universali, una somma di memorie, di culture e di razze che ho conosciuto. Si allontanano dalla rappresentazione del reale, assumendo tratti somatici grotteschi, ma non caricaturali. Sono figure nomadi, immagini che provengono dalla cultura pop dei fumetti, ma anche dall’ordine geometrico e costruttivista dei manifesti. Lo sguardo è spesso celato dietro delle lenti. Assorbono la mia curiosità per il mondo multietnico e vario con cui mi confronto durante i miei viaggi. Anche le mani sono espressive, tanto quanto i volti: sono complementari, e indicano il contesto della mia provenienza in cui la manualità è importante.
C’è un messaggio, un tema ricorrente dietro i tuoi disegni?
Non ci sono messaggi politici. La scelta della strada dove esercitare la mia arte non è una scelta anticonvenzionale, ma mostra più la vicinanza a un contesto sociale artigiano, a cui appartengo, in cui il sapere si identifica con il saper fare. È anche prendersi cura di un luogo, entrare a far parte di una comunità, più che un gesto di rottura, come nel muro abbandonato che ho dipinto ripetutamente nel quartiere dove vivo a Londra, che ora tutti considerano mio.
Cosa hai imparato dipingendo in strada? Ti lasci influenzare dalla situazione?
Di solito non mi faccio influenzare. Affronto ogni nuova composizione in maniera istintiva, è il subconscio che lavora a far emergere le nostre esperienze. Poi chi guarda se ne appropria a modo suo: lavoro in contesti culturali diversi, ci possono essere diverse letture dell’opera. Il murale è più di un foglio bianco. C’è la tridimensionalità dell’architettura che mi piace sfruttare, anche per superare il limite spaziale dei graffiti. Che non significa far sembrare che qualcosa esca dal muro, ma sfruttare i particolari dell’architettura. Anche questo fa parte della mia filosofia di non voler rinunciare a niente.
Cos’ è per te l’arte?
L’arte riflette la vita, è la tua vita che si produce in immagini, serve a sfondare barriere e ad andare sempre avanti, è come il bastone di un cieco, è esplorativa, arriva prima.
– Annalisa Filonzi
www.runabc.org
www.cortodorico.it
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