Per un’architettura estranea alle soluzioni generiche. Intervista a Fabrizio Barozzi
Cofondatore con Alberto Veiga dello studio Barozzi Veiga, con sede a Barcellona, l'architetto italiano ricostruisce i suoi esordi in questa video intervista, a partire dalla “folgorazione infantile” per Villa Malaparte di Adalberto Libera, suo conterraneo. Incaricato del rinnovamento dell'Art Institute di Chicago, lo studio italo-spagnolo attivo dal 2004 ha già ottenuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, a partire dal Mies van der Rohe Award 2015 per la Szczecin Philharmonic Hall, in Polonia
“Fin da quando ero bambino volevo fare l’architetto. Ero estremamente interessato alla costruzione. Per me studiare architettura è stata una decisione abbastanza facile e naturale. Ricordo che la prima volta che ho avuto contatti con l’architettura, e ho iniziato a rendermi conto di cosa fosse, è stato quando ho visto Villa Malaparte di Adalberto Libera. Sono rimasto affascinato da questo meraviglioso, incredibile edificio a Capri. In un certo senso è stata un’immagine che ha segnato la mia futura carriera: ho capito che volevo fare qualcosa di simile”.
È nata durante l’infanzia la passione per l’architettura di Fabrizio Barozzi, spingendolo a trasferirsi dalla natìa Rovereto prima a Venezia, dove ha studiato allo IUAV, quindi in Spagna, all’Escuela Técnica Superior de Arquitectura de Sevilla, e in Francia, all’Ecole d’Architecture de Paris La Villette. Fondatore nel 2004 dello studio Barozzi Veiga con il collega spagnolo Alberto Veiga, Barozzi ha preso parte al secondo ciclo di video interviste del progetto Past Present Future curato da Itinerant Office, dando vita a un densissimo racconto sul lavoro di quella che viene considerata fra le realtà più interessanti del panorama professionale europeo.
Balzati agli onori delle cronache per essersi aggiudicati il Mies van der Rohe Award 2015 con il progetto della Filarmonica di Stettino, in Polonia, Fabrizio Barozzi e Alberto Veiga guidano oggi un team di circa venticinque architetti a Barcellona. Hanno all’attivo interventi acclamati dalla critica, come i recenti Musée Cantonal des Beaux-Arts di Losanna e Tanzhaus Zürich, entrambi in Svizzera; risale a un anno fa, l’affidamento del prestigioso incarico per il progetto di rinnovamento dell’Art Institute di Chicago, il secondo museo più grande degli Stati Uniti.
UN’ARCHITETTURA IN GRADO DI PRESERVARE LE DIFFERENZE
“Attualmente, nel nostro lavoro, cerchiamo di trovare un equilibrio tra lavorare con la specificità del luogo e del contesto e creare qualcosa che conservi l’autonomia della forma come oggetto indipendente. La scoperta di una sorta di equilibrio tra questi due concetti opposti viene dalla nostra biografia e ora è alla base della maggior parte del nostro lavoro. I nostri primi progetti erano forse più legati ai loro contesti, lavorando in continuità con qualcosa che era già presente. Nei progetti più recenti, abbiamo cercato di essere più autonomi, creando una sorta di ‘oggetto assoluto’. Tale movimento dialettico fra questi due concetti è ciò che spiega l’evoluzione della nostra pratica“, racconta Barozzi, prendendo contemporaneamente le distanze dalla possibilità di arrivare a “codificare” un linguaggio comune per tutti gli interventi dello studio. “Piuttosto, proviamo a partire da condizioni diverse per creare qualcosa che sia in grado di collegare progetti diversi. È un atelier in cui ogni progetto è un prototipo. Ogni progetto è unico ed è un’innovazione di qualcosa. Non vogliamo ripetere soluzioni o sistemi di costruzione”.
In un’ottica più estesa, Barozzi osserva che è cruciale “pensare a un’architettura in grado di preservare le differenze. Questa idea è legata al nostro modo di lavorare. Preservare le differenze tra i vari contesti crea qualcosa che funziona con l’unicità delle diverse realtà che esistono nel nostro mondo”, soprattutto in una fase storica in cui “tutte le città hanno iniziato a somigliarsi. Puoi volare a Seoul, a Los Angeles, oa New York, e inizi a vedere uno schema comune, con tutte soluzioni molto generiche. Al contrario, lavorare con quella che è veramente l’identità di ogni piccola realtà è qualcosa di molto importante.” E ai giovani progettisti raccomanda pazienza, fiducia e, soprattutto, ottimismo. L’architetto? “Penso sia una professione straordinaria; tuttavia comporta molte difficoltà. Se non sei ottimista, è difficile operare in questa bellissima professione“.
– Valentina Silvestrini
L’intervista integrale è visibile sul sito
www.pastpresentfutureproject.com
PAST PRESENT FUTURE su ARTRIBUNE
1) Intervista a Odile Decq
2) Intervista a Juan Herreros
3) Intervista a Paul Robbrecht e Hilde Daem
4) Intervista ad Andrés Jaque
5) Intervista a Ricardo Bak Gordon
6) Intervista a Mario Cucinella
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati