Dante, Burri, Capossela. Una “Bestiale Comedìa” sul Grande Cretto
Capossela porta in Sicilia il suo omaggio a Dante, fra musica, teatro, poesia. Lo scenario è incantevole: il Grande Cretto di Burri, al tramonto, diventa palcoscenico di una miscellanea erudita, tra riferimenti artistici, musicali e letterari. Il racconto di questa avventura in un’intervista, a cui si legano stralci dello spettacolo e immagini dal cielo sopra la Gibellina che fu.
Rievoca il XII Canto dell’Inferno, Vinicio Capossela, nel chiudere con voce sommessa e roca il suo spettacolo dantesco, messo in scena lo scorso 7 agosto nella cornice metafisica del “Grande Cretto” di Alberto Burri, là dove sorgeva, mezzo secolo fa, la città di Gibellina. Gli immortali versi si fanno commento, metafora e memoria in questa chiosa perfetta: al sommo Poeta, viaggiatore nel regno dei morti, Virgilio spiega il senso di quella “ruina” che segna l’impervio ingresso al VII Cerchio, nel Girone dei Violenti, al cospetto del Minotauro. Quel crepaccio rovinoso non c’era quando egli giungeva in quei lidi. Fu con la morte di Cristo, poco prima che questi tirasse via dal Limbo le anime dei patriarchi biblici, che l’abietta vallata tremò, per effetto di un terribile sisma, quasi che la terra fosse scossa da un impeto selvatico d’amore: “da tutte parti l’alta valle feda / tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo / sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso; / e in quel punto questa vecchia roccia, / qui e altrove, tal fece riverso”.
Il caos come vitale trasmutazione, se è vero che il reale va in pezzi e poi risorge in una forma nuova, mosso da forza d’amore: centrato e doloroso il parallelo con quei luoghi di morte nel cuore del Belice, di cui si fece tomba, scrigno e monumento la più imponente opera di Land Art mai realizzata al mondo. Un palcoscenico sinuoso, luttuoso, coltre di cemento che occulta laggiù, nell’inferno pacificato del ricordo, i resti del sisma sottratti allo sguardo e consegnati alla storia. “Per l’energia dell’amore”, commenta Capossela con Dante, “il mondo si riconverte e si rifonde nel caos… Certo, è dura dirlo per un terremoto, che è un evento assolutamente tragico e terribile. Però, forse, questo Cretto sembra quasi che abbia atteso un terremoto per cucirne le crepe”.
DA MODIGLIANI A DANTE
La Bestiale Comedìa di Capossela, pensata per celebrare i 700 anni della morte di Dante Alighieri, tocca nel corso dell’estate 2021 alcune città italiane, confluendo anche nel progetto Laboratorio Dante. La Nuova Commedia della Fondazione Orestaidi: tre momenti di riflessione creativa si sono alternati sul Cretto, fra il 5 e il 7 agosto, da Paradise Now #Gibellina. Atto di contemplazione, spettacolo del coreografo Virgilio Sieni, a La Vita Nuova, prima opera dantesca di attribuzione certa, riletta e interpretata da Sergio Rubini. E poi Capossela, con la sua trama di parole e di canzoni, con la sfilata di maschere infernali e cappelli multiformi, con la pletora di demoni, santi, mostri, aedi, animali e viaggiatori, e con quell’arte di intrecciare musica e strofe, nella mistura così personale di armonie folk, arrangiamenti jazz, valzer gitani, sussulti rock, poesie visionarie e ninne nanne lunari: una maniera propria, cucita addosso alla persona e all’inscindibile personaggio, marchio di fabbrica di tante ballate sfornate negli anni e inzuppate di riferimenti colti, di autori masticati, metabolizzati e utilizzati come inesauribile serbatoio.
Dante, per esempio. Che non fu primo amore, ma che a un certo punto lo folgorò, nella lunga avventura ai confini dell’umano sentire, conoscere e desiderare, di cui il Poeta fiorentino fu minuzioso esploratore: “Ho iniziato ad appassionarmi a Dante per mito interposto”, spiega Vinicio in un’intervista. “L’eroe della mia giovinezza è stato il dannato, il bohémien, il distillatore di bellezza Amedeo Modigliani. Modigliani sgranava come un rosario ebbro i versi di Dante a memoria, mentre dipingeva i suoi volti dagli occhi vuoti. E così provai a mandarli a memoria anche io scoprendo la più sublime forma di preghiera umanistica. Una esperienza di spiritualità, che nella ripetizione conduce a una specie di trance”.
VIAGGIO PER MUSICA E PER MARE
E in questa Comedìa, narrata e suonata con due eccellenti compagni di viaggio – i musicisti Vincenzo Vasi e Raffaele Tiseo – Capossela, a bordo della sua barca da pirata-migrante-marinaio, con tanto di vessillo psichedelico, si inoltra fra le acque di un mare oscuro, che sono le sue canzoni, i voli pindarici e le melodie, certi brani di repertorio e certe simbologie, i riferimenti ai miti biblici o pagani, alle vicende passate, all’attualità cruda. Tutto riportato a galla e ricucito, usando come filo rosso il racconto dantesco. Capossela rilegge Capossela, insieme ai conflitti del proprio tempo, dalla strage del Mediterraneo allo strapotere delle multinazionali, dalla morsa del Capitalismo all’orrore dei lager nazisti, dalla Società dello spettacolo alla povertà che risuona tra le note del “Povero Cristo”, povero tra i poveri, vittima tra vittime. Sempre guardando alla cosmogonia dantesca, divenuta specchio, pozzo, dedalo di figure mitologiche e di maestri eccellenti in cui ritrovarsi. L’arte della citazione, provando (compito arduo) a farne strumento di ideale tessitura e non di mera erudizione.
E da Tiresia a Primo Levi, da Ulisse a Pasolini, da Cielo d’Alcamo a Jacopo da Lentini, prosegue il viaggio fra le anime dannate o assurte all’Empireo, al fianco di Virgilio e Beatrice, tra echi di sirene, incantesimi di archi, chitarre e pianoforte, saltelli, miraggi, acrobazie, malinconie, suoni cupi o di cristallo. Un viaggio per musica e per mare, che è innanzitutto inno ai poeti-viaggiatori di ogni tempo: canto dei canti, snocciolando terzine, imbastendo libere riflessioni e invocando lo spirito ancestrale del verso. E da quel colle siciliano divenuto austero memoriale, Caspossela ancora ricorda il mare, citando il “folle volo” di Odisseo, l’agognata Itaca, il senso del limite e il peso della conoscenza, e intonando poi la sua “Nostos”, termine che per gli antichi greci incarnava l’epica del ritorno: “Né pietà di padre, né tenerezza di figlio, né amore di moglie / Ma misi me per l’alto mare aperto / Oltre il recinto della ragione / Oltre le colonne che reggono il cielo / Fino alle isole fortunate / Purgatorio del paradiso”.
L’amore è al centro di ogni brano, nelle varie declinazioni possibili, e così il tempo, il dolore, la paura, l’ingiustizia, con le molte metafore che nei secoli si sono fatte letteratura: così tutto pare inscriversi già in quel “Bestiario d’amore” che abita il racconto, fra colombe, avvoltoi, pavoni, dame e cavalieri. Intanto cala il sole tra i cieli bianchi di Gibellina vecchia. Procede il concerto e il tramonto è evento nell’evento, invito docile al ricordo e alla contemplazione. Impossibile dimenticare la vita interrotta dalla sciagura e sepolta dal gesto monumentale dell’arte, là dove ora sfilano versi, accordi, pagine dotte, anime defunte, echi di crolli e voci di poeti erranti.
INNO ALLA LENTEZZA
Fra i momenti più intensi è l’omaggio a Franco Battiato, che passa dalla sua “Canzone dell’amore perduto” e che con volo pindarico si aggancia alle rime del celebre “Notaro” (Jacopo da Lentini, citato da Dante) e alla scuola poetica fiorita alla corte di Federico II. Un bel match millenario tra due poeti siciliani. Battiato è allora “un maestro al confronto del quale tutto il precedente poetare in canzone suona come Dolce stil vecchio”, e il gioco dei rimandi e delle corrispondenze si fa minuto, quasi spericolato. Come una preghiera electro-pop, tra applausi e commozione, parte una bella versione de La Torre, canzone del maestro catanese che Capossela legge come breve e fulminante visione del Giudizio Universale, in favore degli ultimi, dei pigri, dei perduti, dei normali.
Nel mezzo di vascelli che traghettano anime, rose fresche e aulentissime, dolcezze di sonetti e profezie, “languide” canzoni d’amore – su tutte La lancia del Pelide, ricordando che “lei sola lenisce le ferite che infligge”, lei che può uccidere e resuscitare – si leva l’Inno alla Gioia dell’”Uomo vivo” e si giunge al finale, scivolando in lentezza, nel ralenti degli inchini e dell’uscita di scena.
L’ultima riflessione gioca con l’idea del tempo lungo la scia di una lumaca, che “nella sua forma a spirale” ricorda la vertigine del cosmo: così, “il tumulto del divenire confluisce e si rafferma nella quiete dell’essere. E questo è l’Empireo, l’intelligenza motrice dell’universo, al centro del quale è l’abisso di Dio”. Il brano che Capossela qui ripesca ha per titolo proprio La lumaca, colei che per destino può “Nascere con la pioggia e morire d’autunno / come partorita da un campo / Curare lo stomaco e aiutare l’amore / senza difesa che non sia la mia lentezza”.
Allora, nel lento fluire delle cose, come nei “giorni lunghi e interminabili del meridione”, come nei ricordi custoditi tra strofe e macerie, la certezza conquistata al termine del viaggio è che “Il tempo è cancellato e vinto. Siamo nell’eternità”, conclude. Ed è forse questo approdo all’eterno la scommessa superba di chi con l’arte si misura: che siano canzoni, versi incastonati in un poema, o una distesa di cemento in frantumi, a coprire della tragedia il rumore e a prolungarne l’eco nella storia.
– Helga Marsala
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