Al cinema un ritratto inedito di Munch, ben oltre l’Urlo
3D Produzioni e Nexo Digital raccontano un Edvard Munch inedito. Cosa sappiamo dell’artista? Cosa ha stimolato la sua creatività? Quali erano le sue paure? Come il tempo lo ha mosso e condizionato? Solo al cinema come evento
“Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto”. Cosa sappiamo veramente di Edvard Munch? Un pittore unico e misterioso a cui si associa visivamente subito L’Urlo ma poco si cita o conosce la sua grande e vasta opera nella totalità. Solo al cinema dal 7 al 9 novembre c’è Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro, distribuito da Nexo Digital. Il documentario, non semplice percorso biografico dell’artista, ma vero viaggio nella sua arte, ha una guida prescelta, Ingrid Bolsø Berdal, nota attrice norvegese. È lei ad accogliere lo spettatore e a trasportarlo immediatamente nel mood norvegese e precisamente nella casa di Edvard Munch ad Åsgårdstrand in una notte d’inverno e davanti al focolare. Quello che emerge dal film è il ritratto di un uomo, di un artista sicuramente complesso e fortemente legato al paesaggio nordico. Un artista che non ha mai schivato le difficoltà e le emozioni della vita anzi, ne ha fatto tesoro e ricerca per le sue infinite creazioni in pittura ma anche in scrittura. Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro è un documentario d’arte prodotto da Didi Gnocchi per 3D Produzioni e Franco Di Sarro per Nexo Digital. La sua realizzazione si deve a Michele Mally (regista e autore) e Arianna Marelli (sceneggiatrice) insieme a Gloria Bogi (Produttore Esecutivo), Stefania Calatroni (Montaggio), Marco Alfieri (Cinematographer Set Ingrid Bolsø Berdal) e Mateusz Stolecki (Direttore della Fotografia).
Abbiamo parlato del documentario con il regista e autore Michele Mally e la sceneggiatrice Arianna Marelli.
Cosa rappresenta per voi Munch?
Michele Mally: Per me ed Arianna, che già in “Klimt e Schiele, Eros e Psiche” avevamo indagato, nei decenni a cavallo tra 800 e 900, la fine di un’epoca e la nascita di una nuova visione dell’arte, di un’ introspezione potente, capace di mettere a nudo l’uomo, giungere a Munch è stato più che naturale. Se il suo “Urlo” è conosciuto da tutti, ed è diventato un’icona (come gli autoritratti di Schiele o la Giuditta di Klimt), espressione massima dell’angoscia e del disagio del ‘900, ci siamo subito resi conto che dietro la sua lunga storia si nascondevano altri capolavori della stessa forza, una vita segnata da traumi e amori tormentati, ma anche una vera e propria cattedrale teorica.
Arianna Marelli: Munch è un universo. Studiando la sua arte mi sono accorta che c’è un mondo di immagini attorno a lui che sono da un lato sempre le stesse ma dall’altro sempre diverse. E’ riuscito ad individuare delle figure con una forza straordinaria che poi tornano nella sua opera modificate nei colori o nelle tecniche e che sono sempre con lui, tanto che quando muore ottantenne, nella sua casa – e ci sono nel film diverse foto a testimonianza -, è circondato da queste immagini come fossero suoi figli. Quadri che una volta venduti, poi riproduceva, che è forse poi il motivo per cui abbiamo delle varianti delle stesse opere.
Cosa avete capito dalla sua enorme produzione?
Michele Mally: Scrivere e girare questo film tra la sua Norvegia, la Germania e la Svezia, ci ha permesso di capire alcuni perché della sua straordinaria modernità: la sua visione del tempo, per esempio, che sembra andare di pari passo con quella della fisica quantistica. Il suo mondo di ripetizioni, dove si rivivono all’infinito i momenti fondamentali della propria vita, e dove si è sensibili alle vibrazioni dell’aria, delle particelle, dell’esistenza e delle emozioni, porta a una ricerca potente, quasi spirituale, finalizzata a vedere altro, o forse meglio l’altrove, il non visto, il non detto, i territori dei fantasmi e degli spiriti, quella “terra dei cristalli” che è poi la terra della musica, della poesia, dell’arte.
Possiamo dire che Munch è stato forse un po’ sminuito nel tempo?
Michele Mally: Il ritratto di Munch come un uomo in bilico tra pazzia e malattia si è rivelato un errore, una semplificazione estrema, mentre ai nostri occhi si è composta una coerenza teorica che include vita, scritti, fotografie, pensieri ed opere. Mi auguro che la lettura delle sue opere da parte dei nostri testimoni aiuti lo spettatore a capire la profondità estrema e quasi profetica del pittore norvegese. Girare poi con la bravissima Ingrid Bolsø Berdal nella piccolissima casa dove Munch ha vissuto molta parte della sua esistenza, ad Asgärstrand, è stato esercizio tutt’altro che formale, un’esperienza intensa e quasi commovente, tutta tesa a portare allo spettatore l’emozione del paesaggio e della cultura del grande Nord.
Viene ampiamente raccontato e mostrato nel film, ma quanto malattia, pazzia, morte hanno influenzato il suo lavoro?
Arianna Marelli: Lui stesso diceva che gli angeli della malattia, della pazzia e della morte attorniavano la sua culla. Sin da piccolo ha dei traumi (la morte della madre e della sorella) ed è anche per questo che la “Bambina malata” è la sua prima icona vera. Non è però un pittore mortifero, anzi: usava questa sua realtà familiare per svincolarsi da alcune situazioni come il matrimonio a cui vuole sottrarsi. E’ stato un uomo dalla vita movimentata e non morta. Dall’altra parte c’è una personalità che si interroga sui sentimenti umani, sull’esistenza dell’uomo, e malattia, pazzia, morte fanno parte a tutti gli effetti della vita tanto quanto l’amore, la gelosia o il desiderio.
Michele Mally: La riflessione sulla malattia e la morte è essenziale per Munch. Ezio Grazioli, nel presentarci la “Bambina malata” ci spiega che la malattia che interessa il pittore non è la malattia della bambina, ma ‘la malattia della vita, la malattia dell’arte’. Il film si apre con la morte della madre, un giorno vicino a Natale, quando Edvard ha cinque anni, mentre la morte di Munch viene raccontata attraverso un silenzio, un soffio di vento, e con le immagini di quella “Notte stellata” che tanto avvicina il pittore di Oslo a Van Gogh, e con le “celestografie” dell’amico Strindberg, tentativo estremo di catturare l’invisibile.
Questo documentario è un viaggio attraverso la sua arte, le sue emozioni, le
sue ossessioni. Poco o nulla però si sapeva dei suoi tanti scritti…
Arianna Marelli: Per me, che ho fatto studi letterari, c’è stata assolutamente la scoperta di un Munch “poeta”. Lui è un vero narratore. Scrive la sua vita in modo parallelo e intrecciato con le sue opere. In scrittura come nelle immagini torna e ritorna sulle stesse cose. Al museo Munch, con cui abbiamo collaborato, è disponibile in varie lingue un database dei suoi scritti che corrisponde a una produzione veramente vasta tanto quanto quella visiva.
La scrittura di Munch ha avuto un ruolo centrale in questo documentario?
Michele Mally: Ingrid ha letto per noi varie pagine scritte da Edvard Munch, rivelando la sua forza espressiva ma soprattutto la densità del suo pensiero. Il dolore è al centro della sua riflessione. Non dimentichiamo che frequenta occultisti e satanisti, ma suoi compagni di viaggio sono soprattutto Strindberg e Nietzsche ed Ibsen. Nonostante questo la scrittura non è stata punto di partenza per noi: di fronte a “Women in three stages”, o “Ashes”, o i ritratti del suo amico Przybyszewski, a muoverci è stata la forza insieme metafisica, scientifica e morale della sua pittura, che come tutta la grande arte ha bisogno di essere studiata per essere capita. Alcuni dipinti sono stati interpretati da noi, dai curatori del Munch o da Sue Prideaux, autrice della sua più importante biografia, o da altri esperti.
“L’urlo” è il suo dipinto più popolare… Dopo questo progetto cinematografico,
a quale sua opera potete dire di essere maggiormente legati?
Arianna Marelli: Tantissimi! Sono affascinata da tutti quelli che hanno per soggetto le donne con questi capelli ondulati che richiamano la spiaggia amata da Munch ad Åsgårdstrand. A dover indicare solo una sua opera però dico “Voice” che è ambientata lì e racconta l’attimo prima del bacio con il suo primo amore. Uno dei suoi quadri per me tra i più affascinanti in assoluto e che si lega assolutamente con le parole da lui scritte.
Michele Mally: Senz’altro a “The day after”, apparentemente il ritratto di una giovane in hangover, dopo una festa, in realtà ancora una volta una riflessione su vita e morte. I dettagli della tela, le bottiglie, il seno scoperto della ragazza, il suo viso dagli occhi chiusi, il suo corpo che sembra cadere dal giaciglio… Tutto questo provoca nello spettatore un profondo disagio, ma allo stesso tempo il riconoscimento di qualcosa di noto, il dolore del vivere, la sospensione del tempo, l’attesa di un risveglio, l’orrore di un risveglio.
Margherita Bordino
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