L’arte è un delfino. Intervista a Benedetta Barzini
Benedetta Barzini è modella, attrice, giornalista, docente. Il suo volto compare sul primo numero di Vogue Italia, nel 1965. Femminista militante, negli anni ha condotto una profonda riflessione critica sul “regno dell’immagine” e sulla “schiavitù dei corpi”
Avevo circa vent’anni quando vidi per la prima volta Benedetta in TV, e lì, tra i fotogrammi distratti che scorrevano in fila, mi sembrò una visione talmente incongrua che non seppi trattenermi, chiamai mia madre nell’altra stanza e le chiesi di venire. “Corri, vieni a vedere com’è bella questa donna!”, dissi, e mentre lo dicevo già si affacciavano dentro di me le piccole schiuse di dubbi e di speranze che sarebbero diventate le domande che le ho fatto.
Vieni a vedere. Cosa c’era, poi, da vedere me lo sono chiesto a lungo, e gliel’ho chiesto: perché la tua immagine è così diversa?
Benedetta aveva già qualche capello grigio e il viso segnato dalle rughe, cose che, portate da una donna, da una fotomodella per giunta, non si erano mai viste nei salotti dei talk show senza che lo spettatore fosse indotto a considerare l’onta del tempo – fatto imperdonabile per una donna – che si tira dietro secoli di biologia, millenni di storia e un tempo incalcolabile di cultura patriarcale. Per lei non sembrava funzionare così. Quelle cose, quei segni che noi donne ci affanniamo a cancellare, su di lei dicevano altro e, a me, chiedevano di spostare lo sguardo un po’ più in là, un po’ più in fondo. La sua bellezza non era come quella spacciata in TV, né tantomeno come quella che perfino oggi, in forme più o meno varie, continua a circolare nelle pagine del web.
Cos’era la bellezza, dunque? Non sapevo, ma pensai, “mi hanno ingannato”.
A vent’anni, avevo già interiorizzato tutte le regole a cui una femmina deve conformarsi, avevo già imparato a temere la vecchiaia, per quanto lontana, sapevo a memoria tutti i passi falsi e gli inciampi da evitare. Già avevo messo in conto lo scotto di tempo da pagare per mettere in scena il femminile e la ferrea disciplina che una ragazza deve rispettare per sperare di essere accettata in un mondo che ne decide le regole, senza mostrare mai la verità dietro l’artificio, ma che pone l’artificio come sola possibilità.
Portando il suo corpo in TV, Benedetta mi apriva un mondo che ancora non capivo.
Non capivo, ma intuivo come la sua immagine fosse il tentativo di una dissociazione consapevole dal linguaggio istituzionalizzato (politico, addirittura) che dominava i mass media – e che oggi ancora popola in ampia misura i social media –, teso al controllo di stati e comportamenti attraverso codici e dispositivi simbolici precisi associati al corpo femminile, e suggerisse la possibilità di essere altro.
Un altro tutto da inventare; ma, intanto, si poteva cominciare dall’essere una donna e andare in giro, perfino in TV, guardando il tempo con la testa talmente alta da intimidirlo con il lampo di uno sguardo. Si poteva fare, e lei lo stava facendo. Benedetta ha il merito di aver fatto irruzione nell’immaginario mass-mediatico come quel Soggetto Imprevisto, di cui scriveva Carla Lonzi, che sottraendosi alla narrazione del potere dà vita a un destino imprevisto della storia, della cultura, del pensiero, dell’umano. Che liberazione, che rivoluzione. Questa può sembrare solo la superficie di tutta questa storia, ma a saper vedere è in superficie che affiora la profondità.
DAL CORPO AL MONDO, LEZIONI DI SGUARDO
Fu notata per caso, per strada, da Consuelo Crespi, redattrice di moda, che inviò una sua foto a Diana Vreeland, caporedattrice di Vogue negli USA, che a sua volta la invitò a raggiungerla a New York. Benedetta comincia giovanissima a lavorare come fotomodella. Il suo volto appare sulla prima edizione di Vogue Italia, nel 1965. Nel tempo, è stata fotografata dai più grandi fotografi del mondo: Irving Penn, Richard Avedon, Bert Stern, Ugo Mulas, Alfa Castaldi…
A New York ha conosciuto molti degli artisti più influenti del secondo Novecento, da Andy Wharol, che descrive come sadico e inquietante, capace però di creare di sé un vero e proprio mito, a Duchamp, con cui ha fumato il sigaro durante una finta partita a scacchi, fino a Dalí, che le ha chiesto di sposarlo, per rievocare la sua unione con Gala Éluard (ma anche di accompagnarlo in farmacia, racconta…).
Le immagini sono sempre state con lei, e lei con loro, al punto da poter arrivare perfino a negarle, a dissolverle, così come ha negato e dissolto, narrandola, la struttura stessa del sistema della moda, che faceva di lei una preda con il compito di attrarne altre: le donne tutte.
Qualche anno fa, Beniamino Barrese, suo figlio, le ha dedicato un bellissimo, poetico lungometraggio, dal titolo La scomparsa di mia madre. Qui Benedetta porta fino in fondo la sua ribellione silenziosa, scardinando ancora una volta, ancora più in profondità, il senso dell’immagine, non solo femminile. Quella che di lei appare nelle fotografie, nei fotogrammi del cinema, è un’immagine, ma è anche il suo opposto, per cui – è vero – qualcosa di lei scompare, per lasciar vedere, ancora una volta, altro. La domanda è più radicale: di quale visibile stiamo parlando? Qual è l’immagine che si dissolve e, dunque, cosa appare?
“La mia persona non è fotografabile”, dirà in un’intervista di alcuni anni fa, quasi sfidando i molti che lo hanno fatto. Perché la persona è un’entità complessa che nessun obbiettivo riuscirà a ridurre a oggetto, perché la personalità ha a che fare con ciò che non si vede.
Benedetta ci guida tra le cose che vediamo e, soprattutto, tra quelle che non vediamo. Discerne.
Dal principio alla fine ho pensato che mi stesse indicando qualcosa di ancora non formato al mondo, qualcosa di invisibile e inaudito, che lei vede chiaramente. Come il pensiero delle donne, che non ha avuto il tempo di formarsi, al cospetto dei millenni dominati dal maschile, e dunque non esiste, se non come replica del pensiero prevalente. Di conseguenza, delle donne non esiste l’arte, se non come, nel migliore dei casi, risposta o critica a quella fatta dagli uomini.
Ma cos’è davvero il femminile, cos’è il maschile? Che senso ha cercarli in un mondo che scivola verso la dissoluzione dei generi, senza neppure averli espressi in tutto il loro potenziale?
Abbiamo parlato dell’inganno del visibile per tutto il tempo, declinato nelle forme più impensate, sia che si tratti dell’abito che indossiamo – è docente di Storia e Antropologia della moda –, sia che si tratti dei pensieri che pensiamo. Ma anche di quello che potrebbe esserci e che ancora non c’è: l’invisibile appunto, che contiene una speranza.
In un mondo in cui il visibile è tutto, l’invisibile, ciò che ancora non si vede, ma che tiene assieme il mondo – come l’amore –, può fare la differenza tra una storia dell’uomo fatta di prevaricazione e di violenza, di cui mette in discussione perfino l’arte che di questa violenza è giustificazione, e un futuro lontano di vera emancipazione, di liberazione.
CHE COS’È LA BELLEZZA?
“La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana. Perché oggi troviamo bello ciò che è levigato? Al di là dell’effetto estetico, esso rispecchia un generale imperativo sociale, incarna cioè l’attuale società della positività. La levigatezza non ferisce, e neppure offre alcuna resistenza. Chiede solo un like”. Così scrive Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (edito da Nottetempo), e continua citando lo Pseudo-Longino che, invece, nel trattato Del Sublime scriveva che le belle donne sono “dolore per gli occhi”. È il dolore che rende profonda la bellezza, di una profondità che trattiene, che sosta sull’ombra, che non scivola via e che, dunque, non ha niente a che vedere con ciò che è levigato.
Ci sono regole del bello che vanno dalla persona all’arte. Ma chi le decide?
Molta arte contemporanea si è dedicata alla ricerca del brutto, dice Benedetta, di ciò che stride e trattiene, di ciò che è sempre stato nascosto, e in questo si avvicina alla verità.
È un’idea che, da sola, potrebbe scardinare ogni possibilità di controllo del corpo personale e del corpo sociale.
La bellezza che chiede solo un like è sistemica e conservatrice, pur trasmigrando in apparati mediatici nuovissimi. È consumo e merce, anche quando si dichiara emancipata. Mentre lo spazio di libertà e il suo portato creativo si generano dalla ferita che è la bellezza dolorosa e sublime di ciò che diverge e che obbliga a fermarci per capire.
Il personale è politico, o anche, secondo una delle possibili declinazioni di questa idea tanto feconda da essere ancora e più che mai attuale, il privato è politico, ossia ciò che viene tolto, negato allo sguardo.
Il rimando tra i vari rapporti è, dunque, continuo, e Benedetta si muove agilmente tra di essi, dal particolare al generale e viceversa.
Possiamo perciò parlare di un femminile intimo, che sia finalmente autonomo e autopoietico, ancora tutto da determinare, così come di un pensiero creativo che, liberato da ciò che non gli appartiene, può tornare al grado zero, all’aleph.
Si parla ancora tanto del giusto riconoscimento del femminile nell’arte, per esempio. Ma Benedetta, anche in questo caso, ci fa andare oltre: come si può riconoscere qualcosa che non esiste per i secoli di silenzio a cui è stata consegnata?
Alla domanda, posta con forza emblematica da Linda Nochlin in un saggio che è alla base di una riflessione ancora viva sul “Perché non ci sono state grandi artiste?”, si può rispondere, in fondo, in un solo modo, con un’altra domanda: le cose sono cambiate?
Come sarebbero oggi la musica, l’architettura, la poesia, l’arte e la filosofia, tutte cose fatte nei secoli perlopiù dagli uomini, se fossero state fatte anche dalle donne, o prevalentemente da loro, per lo stesso tempo?
Benedetta ci invita a fare una riflessione radicale su quanto ci appartiene. Non solo in quanto donne, ma in quanto specie che si declina nel femminile, nel maschile o in nessuno dei due sessi. Perché non si può prescindere da quanto ci siamo negati, come femmine, come maschi, come altro. O meglio, non si può prescindere da una riflessione che vada a fondo su quello che ha significato aderire alla rappresentazione storica dei generi.
Abbattere il dualismo e riconciliare cultura e natura, tornare a queste ultime attraverso il corpo, che è il primo fatto politico a nostra disposizione.
Mi spingerei a dire che ogni idea precostituita del bello sia al servizio del potere, che pone obiettivi fittizi, inarrivabili, e vende tutto il necessario per surrogare e sostituire l’unica verità: non abbiamo bisogno di niente.
C’è un legame interessante tra l’immaginario sedimentato nell’arte e nella cultura, e la figura della donna costruita dagli uomini. Si può dire in due parole, citando il collettivo femminista delle Guerrilla Girls, che nel 1989 chiedeva: Do women have to be naked to get into the Met Museum? (Le donne devono essere per forza nude per entrare al Metropolitan Museum?).
Ma Benedetta ci mostra un’altra nudità, che non è quella ritratta nei dipinti, ma è quella invisibile e silenziosa che ci rende persone. Però, ci vuole tempo, dice. Ci vuole ancora tempo. Adesso possiamo solo porre il problema, seminare.
E in fondo è questo il dono ultimo delle sue parole: un tempo che è anche uno spazio nuovo di possibilità, di idee e visioni ancora da inventare. E porta, in questo, in tutto ciò che mostra, anche un altro dono: al di là dei condizionamenti, si può scegliere di essere belle a vent’anni, oppure per sempre.
Quando vidi per la prima volta Benedetta in TV ancora non sapevo che la danza della realtà ci avrebbe, molti anni dopo, fatto incontrare e condividere pranzi, affetti e amori, giocare insieme a carte in riva al mare e arrostire un marshmallow infilato nell’aculeo di un porcospino.
Questa intervista è per portare, a chi ne vuole, un po’ di semi da piantare.
Buona visione.
Stefania Gaudiosi
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