Nanni Strada: abitare l’abito, tra moda, arte e design

“I mutamenti avvenuti hanno segnato molto più il costume femminile di quello maschile e sono legati soprattutto al grado di libertà conquistato dalle donne": la fashion designer ha sempre messo al centro dei suoi progetti il corpo della donna. Ecco l'intervista che Stefania Gaudiosi le ha rivolto

James Laver, studioso del costume e storico dell’arte inglese, conservatore del fondo moda del Victoria and Albert Museum, affermò: “Gli abiti sono inevitabili”. Quattro parole che da sole bastano a sbalzarci verso le profondità a cui può spingersi la riflessione attorno a questi ultimi, gli abiti, l’architettura più prossima, strutturata in strati e giunti ad avvolgere il corpo, materia che fatalmente siamo.

Nell’avventura antropologica che è vestirsi (siamo l’unica specie che lo fa), ciascuno di noi è solo di fronte alla vastità delle forme che invadono negozi, riviste, social e immaginari. Le figure candidate a illuminarci in merito sono, in genere, lontane da un discorso che ne coinvolga gli aspetti archetipici, dal momento che si occupano quasi sempre di marketing, e dunque poco interessate a far luce sulle ragioni simboliche e strutturali delle forme che portiamo addosso.

COSA VUOL DIRE SCEGLIERE UN ABITO E INDOSSARLO?

La libertà, quando si parla di abbigliamento, è un’illusione, perché le forme del costume sono potentemente influenzate da quelle del potere. Ma è nel rapporto tra abbigliamento – individuale, come modo personale di vestirsi e di atteggiarsi – e costume – collettivo, istituzionale, sistematico e indipendente dai singoli soggetti – che ha ben descritto Barthes nei suoi saggi sul senso della moda, che ritroviamo lo spazio più fecondo per una riflessione sul vestire.

Scegliere un vestito è lo specchio di ciò che siamo e che abbiamo capito del mondo, e potrebbe essere un piccolo baluardo anarchico. È infatti spesso passata dagli abiti la rivoluzione, nella forma di protesta che essi assumono di volta in volta, o semplicemente nell’atto di rivendicare la libertà di indossare – e quindi essere e fare – quello che si vuole e non quello che si deve.

Dalla minigonna all’abbigliamento punk, il potere di rottura di certe forme del vestire si declina nel processo di individuazione che ci affranca dalle gabbie del genere e della sessualizzazione del corpo, e che ci emancipa dal conformismo delle gerarchie sociali. Perfino nella sottrazione: spogliarsi, come San Francesco, o come le donne iraniane che abbandonano il velo a costo della vita. E il quotidiano rituale di vestirsi e uscire di casa, passando dalla dimensione privata a quella pubblica attraverso la copertura del corpo nudo, è il primo messaggio sociale – inevitabile – che consegniamo al mondo, tutte le mattine.

Nanni Strada_Abito politubolare_1973

Nanni Strada – Abito politubolare 1973

LA MODA CHE FA LA RIVOLUZIONE

Il mio primo incontro con Nanni Strada è avvenuto alcuni anni fa, nel 2016, a Milano, in Triennale, nell’ambito della mostra “W. Women in Italian Design” curata da Silvana Annicchiarico. Esponeva in quell’occasione una rivisitazione di un progetto del 1970, che applicava per la prima volta al capospalla la tecnica delle cuciture “a saldatura”, processo in grado di rifinire perfettamente il capo su entrambi i lati del tessuto, eliminando fodere e strutture interne (anticipando, così, l’evoluzione della tecnica di assemblaggio dei capi sfoderati degli anni Duemila).

Fu una folgorazione; non tanto per la forza dell’idea anticipatrice, ma per la potenza espressiva di una soluzione tecnica che, mediata sapientemente dal progetto, diventava finalità estetica, alchimia che solo il design migliore è in grado di compiere. Pochi anni dopo, nel 2018, le fu conferito il Compasso d’oro alla carriera, con la seguente motivazione: “Ricerca costante su materiali e tecniche d’avanguardia, unita alla personale intuizione di un linguaggio capace di rappresentare le nuove istanze di un mondo globalizzato nei bisogni, ma anche nei desideri, fanno di Nanni Strada attore imprescindibile nell’evoluzione del concetto di stilista di moda verso quello di fashion designer. Il suo lavoro è un esempio per impegno culturale, finalizzato a superare il concetto di stagionalità o sartorialità dell’abito, un impegno indirizzato verso il concetto di ‘abito come elemento puro’ perseguito con coerenza e coraggio”.

Dovevo saperne di più e ho cominciato a cercare. Ho trovato un mondo di idee e forme che hanno cambiato profondamente il mio modo di guardare alla moda, al design, al progetto, all’arte, in un continuo rimando tra una dimensione privata e personale e una sfera pubblica che si faceva sempre più permeabile, laddove l’apporto di una progettista, che con il suo genio ha interpretato istanze epocali, poteva fare la rivoluzione e l’ha fatta, restituendo senso al gesto tanto semplice quanto necessario del vestirsi. “Abitare l’abito” è la formula (perfetta) usata da Tommaso Trini, sul numero di Domus del maggio del 1972, per presentare il suo lavoro, segnando la nascita di una nuova disciplina che, applicando alla moda il metodo progettuale, la rende simile all’architettura. Bisogna, dunque, restare sulla concretezza materiale dei progetti per raccontare l’incredibile storia di Nanni Strada.

MODA COME PROGETTO PER CHI LA INDOSSA

“Nanni Strada è nota per aver introdotto il linguaggio del progetto nella creazione di moda”. Così è scritto nella biografia che accompagna il bel libro, edito da Lupetti, Lezioni. Moda-Design e cultura del progetto (Milano, 2013), in cui lei stessa ripercorre le fasi essenziali della sua carriera attraverso una raccolta di idee e testimonianze, di progetti e di racconti; un coerente e solido tessuto di intelligenza progettuale, materia prima tagliata e cucita con sapienza, offerta ai suoi studenti del Politecnico di Milano in primis, a cui gran parte delle lezioni sono destinate, e a chiunque voglia capire meglio le differenze e i punti d’incontro tra moda, design, arte, e di come questi elementi abbiano avuto gioco nella ricostruzione di un’identità culturale e di un’entità politica, soprattutto – e lo vedremo – di genere femminile.

Alla pagina 66 è scritto: “Il corpo femminile è cambiato modificandosi nel corso della storia. Il creatore di moda ha sempre tracciato la silhouette dell’abito facendola coincidere con quella di un corpo ideale che non corrisponde necessariamente con quello reale anatomico (…). Per ottenere il proprio risultato egli è intervenuto sulla figura modificandola con indumenti che, per le loro caratteristiche di modellazione e mediante elementi “hard” (stecche, elastici, fasce, allacciature, stringhe, protesi…) costringevano alcuni punti del corpo. Le protagoniste femminili di molti romanzi del passato spesso svenivano non per debolezza, ma per compressione del busto. In altri casi la forma dell’abito aggiungeva volume alla figura, anziché sottrarlo, imbottendo spalle e seno con supporti e gonfiori più o meno soffici per raggiungere uno stile ideale”.

E più avanti: “I mutamenti avvenuti hanno segnato molto più il costume femminile di quello maschile e sono legati soprattutto al grado di libertà conquistato dalle donne e alla necessità di cambiamento avvertita da alcuni creatori di moda dell’epoca che hanno raccolto il messaggio, proponendo un costume più rispettoso del corpo e più adatto alla libertà di movimento, Poiret e Vionnet prima e Chanel poi. L’eliminazione della costrizione del busto, vero e proprio elemento di torture, oltre all’applicazione di materiali tessili più morbidi e del tessuto in sbieco, cioè utilizzando l’aspetto cedevole della materia (Vionnet), permettono di ottenere forme lineari cascanti. L’effetto sul corpo modifica drasticamente la vivibilità dell’abito orientando il concetto di bellezza e di eleganza verso una visione moderna che tiene conto degli aspetti di salute e libertà di comportamento”.

Di queste istanze Nanni Strada si è fatta interprete radicale, spostando l’obiettivo dalla ricostruzione di forme fisiche ideali, tipico dell’approccio sartoriale, alla totale riformulazione di quelle dell’abito, attraverso la qualità del tessuto, la purezza del colore, la “dolcezza della geometria”, che libera il gesto e lo rende elemento estetico in grado di superare l’ossessione per la perfezione di un corpo perennemente sessualizzato e schiavo.

E quanto è potente e rivoluzionaria l’idea di una donna la cui bellezza risiede nel gesto, nella possibilità di esprimersi nel movimento, laddove fino a poco tempo prima il suo potenziale era stata ridotto alla passività e alla negazione. Si è fatta portatrice dei bisogni di una generazione in rivolta, che anelava ad amore e libertà, anche attraverso figure femminili che incarnavano e modellavano il futuro, da Brigitte Bardot a Mary Quant, che con la minigonna introduceva un cambiamento destinato stravolgere per sempre i canoni del possibile.

Tra i suoi progetti troviamo i primi reggiseni senza ferretto e imbottitura ideati per La Perla, i Torchons, abiti da viaggio modulari, comprimibili e stropicciati, facili da piegare e conservare, che hanno influenzato generazioni di creatori di moda, tra cui figure straordinarie come Issey Miyake, o gli abiti politubolari in fibra sintetica senza cuciture, che diventano una seconda pelle, protetta infine da geometrie avvolgenti adatte a tutti i corpi. Un microcosmo di forme nuove, di soluzioni, di spazi aperti verso nuove possibilità esistenziali, verso nuove libertà.

Nanni Strada Torchons Nanni Strada: abitare l’abito, tra moda, arte e design

Nanni Strada – Torchons

NANNI STRADA E I MATERIALI

Alcuni progetti sono paradigmi, segnano il tempo irreversibilmente, usano materie e tecnologie disponibili e ne traggono il meglio. Mostrano il lato buono delle cose, il lato in ombra, il rovescio della medaglia. È questo il dono ulteriore che possiamo trarre dalle parole di Nanni Strada. Quando parliamo di materiali artificiali e prodotti industriali, in un tempo in cui subiamo tutto il portato distruttivo generato dalla cattiva gestione del loro ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento, tendiamo a vederne solo il male. “Sul piano ambientale, le fibre sintetiche sono una catastrofe”, scrive Kassia St Clair, nel libro La trama del mondo (Utet, Milano 2019). Ed è vero.

Ma dietro alla maggior parte delle invenzioni dell’uomo c’è anche un’istanza di liberazione, prima che una strategia produttiva e commerciale disastrosa. Prima dell’introduzione della plastica, molti prodotti di uso comune erano realizzati con gusci di tartaruga, corni e zanne di elefanti. L’invenzione delle fibre sintetiche contribuì a mettere fine allo sfruttamento degli schiavi nei campi di cotone. La cattiva gestione dei materiali artificiali non rende vana la tensione al miglioramento delle condizioni di vita umane e non umane. Così, i capi realizzati in fibra sintetica rivoluzionarono radicalmente l’abbigliamento femminile, contribuendo a liberare il corpo, il movimento, il gesto.

Nanni Strada ha elevato questo concetto a paradigma e i suoi progetti divennero simboli. Non solo il pubblico femminile raffinato e intellettuale, ma anche le giovani contestatrici avevano scelto come “uniforme” i vestiti progettati per Oriente Cina di Milano, compagnia che aveva prodotto e distribuito le sue creazioni per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Ogni suo progetto è, inoltre, un campionario di soluzioni geniali, di possibilità espressive generate dalle potenzialità inesplorate della macchina (lei stessa si definisce un’artista che ha usato le macchine al posto dei pennelli…).

Il “metaprogetto” premiato con il Compasso d’oro nel ’79, Il manto e la pelle, realizzato in collaborazione con Clino Trini Castelli nel 1973, mostrava un sistema completo, innovativo e avanzato per produrre capi d’abbigliamento geometrici (il manto) e la realizzazione di un sistema per la produzione di indumenti elastici realizzati in fibre sintetiche (la pelle) su telai circolari che producevano i tubolari utilizzati generalmente per i collant, che permettevano, variando i diametri, di produrre abiti senza cuciture. L’abito Pantysol nasce grazie a un intervento creativo sul processo produttivo del collant, che è stato capovolto e tagliato per essere indossato, aprendo un’era nuova per l’abbigliamento, che pone al centro il benessere del corpo libero di muoversi in un materiale per sua natura cedevole ed elastico.

Anche la fabbrica, luogo di rivendicazione politica per eccellenza, sotto questa luce, diventa un luogo altrimenti vitale, fucina di progetti innovativi, in cui è l’“elemento umano”, la connessione di intelligenze ed esperienze a dare vita al design migliore che dà forma al mondo.

Questo lavorare sulla soglia, sul confine delle possibilità per offrirne sempre di nuove e di migliori, è forse la chiave per interpretare il lavoro straordinario di Nanni Strada, ma ancora non basta. Lascio che siano le sue parole, il racconto dei suoi progetti nell’intreccio prodigioso con la sua biografia a dire in quale intensità e in quale genio ci siamo imbattuti. Da lì in avanti, ci sarà da riconoscere quanto di migliore ci è stato consegnato, da lei e dai rari progettisti come lei, e che è già qui, nelle nostre vite, pensato per noi mentre noi non c’eravamo o facevamo altro, e ringraziare. Buona visione.

Stefania Gaudiosi

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Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Studiosa e teorica dell’arte, con particolare interesse per l’Arte Cinetica e per l’opera di Iannis Xenakis, è autrice di diversi saggi dedicati ai temi della contemporaneità, della multimedialità e dei new media.…

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