L’ultimo scandalo di Jan Fabre. La madonna secca e la pietà verminosa. Qui intervista
Mentre il caldo torrido delle prime ore pomeridiane non interrompe gli ultimi preparativi che precedono le inaugurazioni in Laguna, Artribune fa tappa alla Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, per incontrare Jan Fabre nel giorno che precede la preview di Pietas. L’artista fiammingo ha destato molto scalpore con la sua ultima opera, in cui rielabora […]
Mentre il caldo torrido delle prime ore pomeridiane non interrompe gli ultimi preparativi che precedono le inaugurazioni in Laguna, Artribune fa tappa alla Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, per incontrare Jan Fabre nel giorno che precede la preview di Pietas. L’artista fiammingo ha destato molto scalpore con la sua ultima opera, in cui rielabora la pietà michelangiolesca rappresentando il volto della Madonna con l’effigie di un teschio e sostituendo la figura di Cristo con la sua persona, in giacca e cravatta e in stato di morte – trasudante una vitalità bacata, fatta di insetti, farfalle e lumache -, mentre con una mano trattiene un cervello. Al Sogno compassionevole (Pietà V) – questo il titolo dell’opera tacciata di blasfemia – si giunge dopo aver compiuto un percorso iniziatico che si svolge su una pedana dorata, esplicito rimando a dimensioni ultraterrene. Al centro della mostra c’è il cervello, come in precedenti opere fabriane, rappresentato in vari modi attraverso numerosi attributi che moltiplicano esponenzialmente le simbologie possibili dei quattro blocchi in marmo puro che precedono la Pietà (V), realizzata invece in marmo di Carrara. Così si va dagli Strumenti di pietà terroristica (Pietà I), “dove la croce della passione, la croce dei chiodi, è immaginata come relazione con i sensi del corpo nel ragno scolpito sul cervello” – come scrive nel suo testo Giacinto Di Pietrantonio -; alla Tomba vivente (Pietà II), in cui “la trilogia è composta da cervello, chiocciola e croce con edera”; dalla Fontana della vita imitante la forma e lo stile della miniatura (Pietà III), “che per Fabre ha il significato del linguaggio, della memoria e della storia”; all’Ascesa delle pietre oracolari, in cui quattro tartarughe rovesciate rappresentano i “centri oracolari e altrettanti ombelichi del mondo che, secondo l’artista, parlano delle inibizioni, dei divieti, dei comportamenti giusti e sbagliati e dunque della coscienza”. A completare l’allestimento, dieci nidi interamente ricoperti da gusci di scarabeo, l’animale che simboleggia la metamorfosi, tema che si ricollega a quelli della vita, della morte e della resurrezione, rappresentati nelle cinque sculture. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Perché hai scelto di rielaborare la Pietà di Michelangelo?
Da un punto di vista iconografico, è la più rappresentativa e la più diffusa nel mondo. Ma è anche una fusione della tradizione fiamminga e di quella italiana, per il tipo di soggetti rappresentati. È un omaggio a Michelangelo e a Cristo stesso, e rappresenta anche lo stadio della vita post-mortem.
Perché scegliere questo tema?
Perché per me la pietà è come un cervello e i cervelli sono anche pietà.
Si avverte un forte senso di religiosità nella tua opera. Come lo declini?
Nella successione delle singole opere, si passa da un cervello che rappresenta intrinsecamente una visione pagana della religione, a un altro dove si avverte una visione più cristiano-cattolica. Procedendo nel percorso, si incrocia un cervello col bonsai, legato allo scintoismo giapponese, e infine uno con delle tartarughe la cui presenza è un riferimento alla religiosità cinese, indiana e degli antichi greci.
Nella tua opera è più presente la vita o la morte?
La mia opera è una celebrazione di vita e morte, insieme. È un campo di battaglia, dove spiritualità e bellezza si incontrano e si scontrano.
Che valenza ha la corporeità in questa celebrazione?
Penso che il cervello sia la parte più importante del corpo, la più sexy. Se non c’è immaginazione non c’è erezione.
Anna Saba Didonato
Venezia // fino al 16 ottobre 2011
Jan Fabre – Pietas
a cura di Giacinto di Pietrantonio e Katerina Koskina
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