Vogliamo scommettere che quel che rimarrà della mostra della Curiger saranno i Parapadiglioni?
Trovateci qualcuno che si dichiara “emozionato” o “entusiasta” della mostra internazionale di Bice Curiger e vi facciamo un regalo. Indubbiamente la svizzera è stata molto svizzera e non ha fatto innamorare il popolo dei professionals. La mostra all’Arsenale ha qualche guizzo, ma non rimane particolarmente impressa pur essendo di buona qualità. La mostra ai Giardini […]
Trovateci qualcuno che si dichiara “emozionato” o “entusiasta” della mostra internazionale di Bice Curiger e vi facciamo un regalo. Indubbiamente la svizzera è stata molto svizzera e non ha fatto innamorare il popolo dei professionals. La mostra all’Arsenale ha qualche guizzo, ma non rimane particolarmente impressa pur essendo di buona qualità. La mostra ai Giardini non ha neppure qualche guizzo.
Dunque una Biennale che, come tante, finirà rapida nel dimenticatoio? Niente affatto, in realtà. C’è un elemento che rimarrà ai posteri ed è, peraltro, forse l’unica vera invenzione del percorso espositivo di una curatrice che propriamente curatrice non è.
Non stiamo parlando della scelta, un po’ facile, di esporre tre opere di Tintoretto all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni, ma dell’idea di proporre ad alcuni artisti di realizzare strutture “architettoniche”, contenitori che siano sia una loro opera, sia uno spazio espositivo che racchiuda opere di altri artisti. Si chiamano “parapadiglioni” e sono quattro. Quello dell’americano Oscar Tuazon è una struttura in cemento armato che sta ai Giardini dalla parte “di là” (di fronte al Padiglione Polonia) e che è così azzeccato che pare esserci sempre stato. Quello di Franz West, all’Arsenale, ripropone le proporzioni della cucina dell’artista austriaco. Il parapadiglione del cionese Song Dong (all’Arsenale), che ripropone la casa dei suoi genitori, è emozione pura così come è pura tensione quello della polacca Monika Sosnowska nel Palazzo delle Esposizioni ai Giardini.
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