Pechino? È una città della violenza. Ai Weiwei rompe il silenzio e racconta a Newsweek la sua detenzione e la corruzione che regna sovrana in Cina
“Il mio calvario mi ha fatto capire che esistono molti luoghi nascosti dove segregare le persone privandole della propria identità. […] Solo la tua famiglia piange per la tua perdita, non è possibile ottenere notizie da parte delle autorità neanche ai massimi livelli, né dai giudici, né dalla polizia, né dal governo”. Ai Weiwei rompe […]
“Il mio calvario mi ha fatto capire che esistono molti luoghi nascosti dove segregare le persone privandole della propria identità. […] Solo la tua famiglia piange per la tua perdita, non è possibile ottenere notizie da parte delle autorità neanche ai massimi livelli, né dai giudici, né dalla polizia, né dal governo”. Ai Weiwei rompe gli indugi, e per la prima volta dopo la sua liberazione sfida le autorità cinesi ed affida alla stampa le sue considerazioni sulle vicende che lo hanno visto vittima di 81 giorni di detenzione, e le sue feroci critiche alle stesse autorità. E lo fa con un’intervista apparsa sul sito web del settimanale Newsweek, incurante di quelle che saranno le conseguenze, che ora non è in grado di prevedere.
“La cosa peggiore a Pechino è che non si può mai fidarsi del sistema giudiziario”, affonda con lucidità il dissidente e artista cinese. “Mia moglie ha scritto ogni giorno ogni tipo di richiesta, telefonando ogni giorno alla stazione di polizia. Dov’è mio marito? Dimmi dove è mio marito. Nessuna informazione in risposta, il silenzio”.
Poi l’obbiettivo diventa la situazione cinese in generale e la corruzione diffusa: “Pechino è una città della violenza. […] Ogni anno milioni di lavoratori vengono a Pechino per costruire ponti, strade e abitazioni, sono gli schiavi di Pechino. Vivono da squatter in strutture illegali, mentre Pechino continua ad espandersi. Chi possiede le case? Queste appartengono al governo, ai padroni di carbone, ai capi delle grandi aziende”.
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