Le riviste d’arte chiudono? Forse non è sempre un dramma. Riflessioni a margine della vicenda Tribeart. Nessuno tocchi i giornali, purché si reggano sulle proprie gambe
Tempi duri per l’editoria culturale italiana. Lo spettacolo disarmante dell’attuale crollo economico, politico, morale, quasi ci ha assuefatti al trend. Chiuso per crisi: ritornello tragico che bene illustra il progressivo bollettino di guerra. Il Paese viene giù, pezzo dopo pezzo, senza nemmeno troppo clamore: musei, teatri, fabbriche, aziende, negozi… E a chiudere, naturalmente, sono pure […]
Tempi duri per l’editoria culturale italiana. Lo spettacolo disarmante dell’attuale crollo economico, politico, morale, quasi ci ha assuefatti al trend. Chiuso per crisi: ritornello tragico che bene illustra il progressivo bollettino di guerra. Il Paese viene giù, pezzo dopo pezzo, senza nemmeno troppo clamore: musei, teatri, fabbriche, aziende, negozi… E a chiudere, naturalmente, sono pure i giornali. Quelli di settore, soprattutto; quelli per gli addetti ai lavori dell’arte e della cultura, in primis.
Arriva adesso da Catania una notizia che dispiace. Tribeart, noto art magazine cartaceo con diffusione regionale (8000 copie, per qualche decina di point), diretto da Vanessa Viscogliosi e Alessandro Fangano, comunica la sospensione delle attività per mancanza di fondi. E non è chiaro se di morte conclamata si tratti o di uno stato di standby. Peccato. Quando una testata si spegne è sempre un fatto triste.
Ma, fuor di retorica, la questione è una: il sistema può ancora permettersi di tenere in vita decine di riviste di nicchia che, di fatto, non producono economia, non riescono a sostenersi, non arrivano a pagare una redazione, non hanno orizzonti di sviluppo e spesso restano incastrate dentro una certa autoreferenzialità? Piccole realtà che – fatti salvi certi gioiellini ancora capaci di sperimentare, nonché di creare micro-sistemi virtuosi – magari non forniscono nemmeno un significativo valore aggiunto dal punto di vista dei linguaggi e dei contenuti.
Esulando dallo specifico caso, chi ha davvero bisogno di giornali spesso fatti per amici e colleghi (più che per i lettori), o che ricalcano modelli già esistenti? Tra le maglie di un mercato che è ormai sul limite del tracollo, resta spazio per pochi. Per i migliori, detto crudamente. Un discorso che, chiaramente, può estendersi a tutto il mondo dell’impresa. E allora, piuttosto che disperdere e far disperdere preziose risorse economiche e intellettuali (leggi: investitori, clienti, collaboratori), meglio unire le forze e concentrarsi sul “poco ma buono” che c’è. Puntando all’innovazione, alla crescita e alle sinergie. Una cosa che ripetiamo a noi stessi, ogni giorno.
Tribeart, però, alla prospettiva di chiudere – giustamente – non si rassegna. E allora che fa? Dando seguito a un’idea di Daniela Arionte e Marella Ferrera – rispettivamente gallerista ed ex assessore alla cultura di Catania – chiede aiuto agli artisti, raccoglie un centinaio di opere e le mette all’incanto, negli spazi del catanese Palazzo della Cultura. Base d’asta, 300 euro. Un’abitudine recente, questa della colletta culturale. Per fare una mostra, aprire uno spazio non profit, pagare la stampa di un giornale… Si fa un fischio agli artisti (che ricchi certo non sono) e si bandisce un’asta. La nuova banca del micro-sistema dell’arte?
In questo contesto, poi, non si capisce quale sia la finalità. Tirare innanzi per un altro numero o due? Oppure farne una forma definitiva di autofinanziamento? Ma la strada dell’SOS umanitario non può e non deve sostituirsi a quella imprenditoriale. Nemmeno sporadicamente. Resistenza equivale a sviluppo, oggi più che mai. E noi, ai colleghi di Tribeart, dalla cui vicenda abbiamo preso spunto per una più ampia riflessione, non possiamo che augurare di imboccare nuove e redditizie vie. Preferendo sempre l’efficienza alla beneficienza, le idee agli oboli una tantum. Le porte di Artribune, chiaramente, sono aperte per collaborazioni, scambi, proposte.
– Helga Marsala
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