L’arte in digitale? È come voler mangiare la fotografia di un hamburger. Fra paradossi, qualunquismi e spunti geniali, al Salone del Libro di Torino si twitta anche di arte
“Forse un giorno gli amatori della carta stampata per annusare l’odore dei libri saranno disposti a pagare più di quanto non paghino per annusare cocaina”, decreta uno smagliante Philippe Daverio. Domenica 13 Maggio alla 25sima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il critico è invitato insieme a Paolo Bacilieri (fumettista) e Vincenzo Trione […]
“Forse un giorno gli amatori della carta stampata per annusare l’odore dei libri saranno disposti a pagare più di quanto non paghino per annusare cocaina”, decreta uno smagliante Philippe Daverio. Domenica 13 Maggio alla 25sima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il critico è invitato insieme a Paolo Bacilieri (fumettista) e Vincenzo Trione (docente IULM di Milano, oltre che illustre penna del Corriere) a parlare di arte nell’era del digitale. “L’arte contemporanea si fonda su Ryanair – continua -, fa un sacco di rumore intorno e i signori che ci vivono dentro rincorrono i soldi per restituirli ai loro creditori. Ma il mondo dell’arte è solo una piccola pallina della finanza mondiale”. Quasi a placare chi sgrana gli occhi alle recenti cifre di Sotheby’s, puntualizzando che in tutti gli ambiti, anche in quello dell’arte contemporanea, ci sono le balle e ci sono le cose serie.
Secondo Vincenzo Trione, l’arte digitale raggiunge il traguardo di un duplice percorso che gli artisti hanno iniziato da molto tempo: la riproducibilità tecnica e la smaterializzazione; Duchamp forse non è altro che un figlio illegittimo di Leonardo, il primo a dare importanza anche al non-fisico dell’opera. E i problemi dell’arte contemporanea si potrebbero riassumere nella disputa tra Jeff Koons e David Hockney, che accusa il primo di non essere autore delle proprie opere, in quanto non realizzate con le sue mani.
Ma è possibile relazionarsi all’arte attraverso le tecnologie digitali, come uno schermo? “No. È come avere un rapporto con l’hamburger fotografato” risponde Daverio. Ma Twitter ha reso pubblica questa sentenza anticipando Artribune e ogni altro diffusore (la coordinatrice Serena Danna cinguettava in progress frammenti di conversazione): questo riguarda proprio il tema portante dell’intero Salone, il rapporto tra media “tradizionali” e nuovi. Non a caso nell’incontro si ripresentano molti punti comuni con il dibattito, tenutosi poche ore prima dall’altra parte del Lingotto, tra Massimo Gramellini e Gianni Riotta, coordinato da Mario Calabresi, con Giacomo Poretti (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo) che parla attraverso una registrazione video: “Leggere un libro su un tablet è come fare l’amore con una bambola di plastica”, negli anni che definisce come ”l’epoca del terrore di dimenticare la password”.
L’ex direttore del TG1 arriva più tardi e twitta per strada: “Scusate il ritardo, ma piove e la strada è piena di gobbi”, nel frattempo il suo posto è occupato da Beppe Severgnini. I toni sono sereni, una conversazione tra colleghi. Mentre Gramellini rifiuta un mezzo come Twitter, pur riconoscendone le potenzialità, Riotta lo sostiene e al suo arrivo mostra orgoglioso la propria firma di piombo, reperto archeologico per i nuovi giornalisti o pseudo tali. “Finché Gutenberg stampa la Bibbia, non c’è rivoluzione. La rivoluzione avviene quando cambiano i contenuti, non i mezzi”. Validissimo e auspicabile spunto di riflessione, quello di Riotta, ma un teorico come McLuhan sarebbe d’accordo? Siamo sicuri che il mezzo resti mero strumento e non diventi parte del contenuto? Probabilmente per queste domande non c’è ancora una risposta assoluta, perciò occorre continuare a porle…
– Lucia Grassiccia
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