A cosa serve la critica? Message in a bottle. Quando il messaggio sono 80 recensioni e il destinatario, nell’oceano dell’arte, è Christian Jankowski
Scrivere d’arte. Scriverne con classe o con approssimazione, per professione o per diletto, per se stessi o – bontà nostra – per i lettori. Scrivere in critichese, qualche volta in politichese, fra citazioni, barocchismi, cesellati manierismi. Scrivere, con la grazia del talento. Un po’ filosofi, un po’ accademici, giornalisti d’assalto o curatori indipendenti, romanzieri mancati […]
Scrivere d’arte. Scriverne con classe o con approssimazione, per professione o per diletto, per se stessi o – bontà nostra – per i lettori. Scrivere in critichese, qualche volta in politichese, fra citazioni, barocchismi, cesellati manierismi. Scrivere, con la grazia del talento. Un po’ filosofi, un po’ accademici, giornalisti d’assalto o curatori indipendenti, romanzieri mancati e mezzi artisti. Quelli che scrivono i testi in catalogo, quelli che recensiscono; quelli che stroncano, quelli del 6 politico (tutti promossi e niente rogne); quelli che il loro giudizio, ancora, a qualcuno fa tremare i polsi. Insomma, la critica d’arte: dove sta andando, di cosa di nutre, quanto fumo e quanto arrosto? Status symbol o lavoro vero?
Chi scrive lo sa: l’infinito potere della parola consente di ricamare il pieno sul vuoto, di dire tutto camuffando il niente, di imbellettare il banale. Ma anche di tirare fuori il bello, di coltivare il gusto del racconto, di indovinare prospettive nuove.
E intanto le cose cambiano. Come la classica “recensione”: serve ancora a qualcosa? Come reinventarla? Non sarà meglio sacrificarla?
Ma non sono solo scrittori e scrivani dell’arte a misurarsi con tutto questo. Christian Jankowski, per esempio, alla Friedrich Petzel Gallery di New York presenta la personale “Discourse News”. E tra i lavori, tutti sul tema della comunicazione dell’arte nella società mediatica, c’è anche l’efficacissimo Review.
In breve: l’artista chiede a 80 critici di scrivere una recensione su un lavoro che non c’è. O meglio, sul lavoro di cui avrebbero dovuto scrivere, qualora egli lo avesse realizzato. Oggetto dell’opera? Le recensioni stesse, in un cortocircuito vertiginoso che fa della tautologia il paradosso esposto. La critica che si mette in mostra, criticando una mostra fatta di sola critica.
Le affilate penne confezionano i testi, rigorosamente scritti a mano, li arrotolano e li custodiscono: ogni foglio dentro una bottiglia, sigillata con cercalacca e piazzata sul pavimento. La collezione diventa installazione. Fogli fantasma che nessuno leggerà, tasselli di un’opera mai nata, invisibile e molteplice.
Restano solo le parole, pioggia di concetti e arzigogolare lessicale, per un esercizio critico che svela la propria fragilità, ma anche la propria potenza.
Perché c’è una potenza propria del linguaggio, di cui l’arte ha bisogno. Il problema sta nel come e nel cosa, nel senso e nella funzione, nell’utilità e nella natura delle relazioni: tra opera e sguardo, tra opera e scrittura.
A cosa servono i testi autoreferenziali raccolti da Jankowski? A niente. O forse, chissà, a inaugurare una riflessione simbiotica che veda accanto, complici e disincantati, artista e critico. Attori di uno stesso naufragio, esploratori di uno unico sentiero ininterrotto.
– Helga Marsala
www.petzel.com
fino al 28 luglio 2012
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