Un nemico in meno per Koons. A settantaquattro anni, morto a New York il grande critico australiano Robert Hughes, cantore del politically uncorrect
Nel 2003 fummo vicinissimi – più di qualcuno direbbe rischiammo moltissimo – a ritrovarcelo direttore della Biennale di Venezia: l’allora temutissimo critico d’arte del New York Times, il 63enne Robert Hughes, fu per mesi in testa al totocuratore, che poi vide lo scettro della 50a edizione consegnato nelle mani di Francesco Bonami. Ora i suoi […]
Nel 2003 fummo vicinissimi – più di qualcuno direbbe rischiammo moltissimo – a ritrovarcelo direttore della Biennale di Venezia: l’allora temutissimo critico d’arte del New York Times, il 63enne Robert Hughes, fu per mesi in testa al totocuratore, che poi vide lo scettro della 50a edizione consegnato nelle mani di Francesco Bonami. Ora i suoi detrattori potranno dormire sogni tranquilli, visto che l’eventualità non potrà più riproporsi: il grande storico, critico d’arte e scrittore di origini australiane è infatti morto ieri – 6 agosto – a 74 anni nella sua casa del Bronx, in seguito ad una lunga malattia, in quella NY che da oltre trent’anni aveva eletto a sua città adottiva.
“È il cadavere del liberalismo degli anni Sessanta, è il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze”: così, fra l’altro, Hughes definiva “La cultura del piagnisteo”, nell’omonimo libro che resterà come più popolare testimonianza del suo testamento spirituale. Ancora più utile ad introdurlo è il sottotitolo, “La saga del politicamente corretto”, per un saggio che se la prende con l’americana dottrina del politically correct, caratterizzata – a detta sua – dall’insofferenza verso la qualità, con risultati di appiattimento generale.
Mario Vargas Llosa, Paul Virilio e Robert Hughes – scriveva tempo fa Vincenzo Trione sul Corriere, ben inquadrando l’approccio dell’australiano al contemporaneo – “sono accomunati da un avversario: l’ arte contemporanea, nei suoi eccessi e nelle sue degenerazioni. … Si apprestano a diventare i leader involontari di un nuovo partito estetico. … L’ obiettivo è quello di reagire, di opporsi, di non adeguarsi, ripristinando regole e ridefinendo giudizi. … Un movimento antimoderno, che finora non ha redatto manifesti, ma è intervenuto in maniera rapsodica, con varie uscite, in programmi televisivi, su giornali e in libri, disegnando una sorprendente confluenza di prospettive”.
Difficile citare in poche righe qualche passaggio della sua articolata carriera, che l’ha visto spesso contrapporsi con gli artisti established, uno su tutti Jeff Koons. Giunto a Londra nel 1965, scrisse per The Spectator, The Daily Telegraph, The Times e The Observer, guadagnando nel 1970 la posizione di critico d’arte per la rivista Time e trasferendosi a New York. Una delle sue opere chiave, The Shock of the New, sullo sviluppo dell’arte moderna dopo l’Impressionismo, uscì come saggio per poi essere trasposto dalla BBC in una serie televisiva.
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