Siamo tutti crowdfunding. I soldi per la cultura oggi si trovano così. Anche il Padiglione Italia scommette sulla colletta 2.0 e cerca aiuto tra la folla. Moda o strategia vincente?
Crowdfunding, una parola ultimamente assai usata e forse, in qualche caso, abusata. Come tutte le parole – i concetti e le pratiche – che diventano moda e che si applicano ovunque con generosità, indistintamente. Come quella definizione “bene comune”, per esempio, che tanto abbiamo amato e associato a esperienze di buona politica culturale e di […]
Crowdfunding, una parola ultimamente assai usata e forse, in qualche caso, abusata. Come tutte le parole – i concetti e le pratiche – che diventano moda e che si applicano ovunque con generosità, indistintamente. Come quella definizione “bene comune”, per esempio, che tanto abbiamo amato e associato a esperienze di buona politica culturale e di resistenza, ma che poi è riuscita a farsi nuocere: sulla bocca di tutti, è diventata un ritornello svuotato di senso, appiccicato come un bollino buonista o come un lezioso maquillage a questa e a quella situazione di propaganda o di pseudo attivismo.
E in effetti, idea del bene comune e realtà del crowdfunding – letteralmente “finanziamento della folla” – con tutte le implicazioni legate alla produzione e alla partecipazione dal basso, viaggiano un po’ su binari paralleli. Stesso ceppo ideale. Che va benissimo. Va bene che il non profit, per esempio, s’inventi metodi alternativi, che lo facciano i piccoli e meritevoli progetti coltivati in ambito underground o promossi da realtà indipendenti. La crisi spinge verso l’elaborazione di nuove formule, in cui solidarietà, cooperazione, creatività, rete, comunicazione, orizzontalità, fanno la differenza. Ma quando a unirsi al coro è la Biennale di Venezia, che valutazioni fare?
Il Padiglione Italia, appena presentato a Roma, non dimentica di puntare sulla diffusissima formula della folla-pagante: gente reclutata sul web, che sposa un progetto e che decide di dare una mano, versando un contributo e ricevendo in cambio un piccolo benefit, simbolico o materiale. Vice versa – questo il titolo del Padiglione targato Bartolomeo Pietromarchi – chiede la partecipazione del popolo. Perché con i 600 mila euro messi a disposizione dall’Istituzione non si arriva – dicono – a coprire tutto. Una cifra inferiore a quelle elargite negli anni precedenti, è vero, ma certo non di bruscolini si tratta. Serviva davvero questa campagna di raccolta fondi? Per chi volesse dare una mano, a partire dal 12 febbraio e per la durata di 90 giorni, si potrà partecipare con una donazione tramite il sito ufficiale, sapendo di contribuire col proprio gesto alle produzioni degli artisti, alla comunicazione, all’organizzazione di incontri e alla preparazione di un convegno conclusivo.
La capacità che hanno questi metodi di generare consenso, partecipazione, feeling e reattività sociale, è altissimo. Ed è assolutamente vincente, da un punto di vista culturale ed etico, ancor prima che finanziario. Già grosse realtà internazionali, come il Louvre, con la campagna Tous Mécènes, o come il Goddamn Tesla Museum negli Stati Uniti, stanno raggranellando un bel po’ di spiccioli così: in Europa sono oggi 200 le piattaforme che veicolano la raccolta fondi per queste operazioni. E nel mentre i governi tagliano: la spesa pubblica per la cultura non solo non cresce, ma si riduce, drammaticamente. E alla fine il vecchio metodo “colletta”, rimodulato in chiave 2.0, è la risorsa a cui fare appello in extremis. Modalità sbocciate in ambito underground, ora prestate anche ai colossi pubblici. Giusto? Sbagliato? Forse solo necessario. Quando l’idea di una spending review che sacrifichi, costantemente, proprio una delle aree più determinanti per il benessere e lo sviluppo di un paese – la cultura – è oramai inarrestabile.
Quanto ai risultati, lo stesso Pietromarchi non ci punta granché. È il curatore romano a dichiarare che il fine è più di tipo culturale, che non economico: grandi incassi non se ne prevedono, ma promuovere la bontà di questa formula è l’obiettivo primo. Restando anche, così, in linea con il trend internazionale.
Le prime polemiche sul crowdfunding, intanto, sono esplose anche in Italia, almeno in ambito musicale. Un fenomeno che si appresta a diventare moda? Un passepartout che democraticamente finanzia il bello e il brutto, sulla base dei contatti e i numeri su internet? Vera pratica alternativa o elemosina qualunquista? Tappabuchi che deresponsabilizza il settore pubblico o modello per il futuro? Sicuramente, ad oggi, una risorsa. Da usare con parsimonia, intelligenza e trasparenza. Mentre ancora una volta è il cittadino a dare l’esempio allo Stato, e non… vice versa.
– Helga Marsala
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