“Installazioni? Mai fatte, quella è roba americana”. Jannis Kounellis deflagrante in conferenza a Istanbul: “Sono solamente un pittore: volevo uscire dal quadro e dialogare con il pubblico″
Uno Jannis Kounellis inarrestabile, quello che venerdì 22 marzo ha presenziato alla conferenza di chiusura del suo progetto espositivo alla Galeri Artist di Istanbul, presso l’Istituto Italiano di Cultura della metropoli turca. Un incontro che si è trasformato in breve in una conversazione fiume tra Bruno Corà, critico d’arte che seguì dagli esordi il lavoro […]
Uno Jannis Kounellis inarrestabile, quello che venerdì 22 marzo ha presenziato alla conferenza di chiusura del suo progetto espositivo alla Galeri Artist di Istanbul, presso l’Istituto Italiano di Cultura della metropoli turca. Un incontro che si è trasformato in breve in una conversazione fiume tra Bruno Corà, critico d’arte che seguì dagli esordi il lavoro dell’artista italo-greco, oggi direttore del CAMEC di La Spezia, lo stesso Kounellis, uno dei pilastri dell’arte italiana degli ultimi cinquant’anni, esponente di quel raggruppamento artistico che nel 1967 Germano Celant denominò Arte Povera, e Beral Madra, critica d’arte e curatrice turca, che nel 1989 invitò l’artista a esporre alla seconda edizione di un’acerba e ancora poco internazionale Istanbul Biennial.
Dopo un’introduzione dell’amico e compagno di strada Bruno Corà, Kounellis ha volteggiato con un’incantevole abilità tra le domande di Beral Madra prima e del pubblico poi: raccontando che a lui e agli altri non era mai passato per la mente di installare, che quello che voleva fare non era abbandonare la logica della pittura, ma portarla ad una nuova possibilità espressiva e rivoluzionaria; che lui è un uomo del tardo dopoguerra e che, essendo la guerra una mancanza di dialogo, quello che ha sempre cercato nella sua arte è la dialettica, l’incontro con l’altro; e poi ancora, che quando nel libro Una Conversazione degli anni Ottanta diceva – assieme a Joseph Beuys – di voler costruire delle cattedrali, un po’ gli era scappato e un po’ l’aveva detto perché voleva realizzare qualcosa che si vedesse da lontano; che nell’enorme quantità di linguaggi artistici contemporanei è come se ognuno parlasse a se stesso davanti ad uno specchio, manca la volontà di dialogare.
E poi guai a togliere l’uomo dal quadro, si rischia di diventare teocratici, come Malevič; la provvisorietà nell’arte non esiste, i cavalli del suo lavoro del 1969 alla Galleria L’Attico di Roma probabilmente ora sono tutti morti, ma quello che lui ha fatto resiste tutt’oggi; il Partenone, anche se è rimasta in piedi qualche manciata di colonne, è ancora il metro dell’uomo. Come dargli torto?
– Marta Pettinau
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