Vendere o non vendere? Questo è il dilemma a Tower Hamlets, quartiere popolare londinese che vorrebbe monetizzare la statua donata a suo tempo da Henry Moore
Se sei un ente pubblico ne fai di cose con venti milioni di sterline. Tappi buche di strade e marciapiedi da qui all’eternità, sistemi l’arredo urbano di un quartiere di 250mila persone, vera e propria città nella città: specie se qui, secondo stime del Telegraph, oltre il 40% dei bambini vive in famiglie sotto la soglia […]
Se sei un ente pubblico ne fai di cose con venti milioni di sterline. Tappi buche di strade e marciapiedi da qui all’eternità, sistemi l’arredo urbano di un quartiere di 250mila persone, vera e propria città nella città: specie se qui, secondo stime del Telegraph, oltre il 40% dei bambini vive in famiglie sotto la soglia di povertà. Puoi avviare programmi di sostegno ad anziani e disoccupati, aiutare le giovani coppie; migliorare asili, scuole, ospizi e ospedali. Bisogna trovarli, però, quei soldi. E se la crisi è, a pieno titolo, un male estremo, ci si arrangia con gli estremi rimedi: polemiche nel Regno Unito per la ventilata possibilità di mettere all’asta la Draped Seated Woman collocata da Henry Moore nella popolare area londinese di Stepney, proprio davanti a uno dei palazzoni simbolo delle dure condizioni di vita del proletariato urbano. Un monumento reale e consapevole ad un altro assolutamente involontario: quest’ultimo atterrato a fine Anni Novanta, con lo spostamento dell’opera nella ben più gradevole, ma concettualmente più debole, cornice dello Yorkshire Sculpture Park.
Da dove potrebbe essere presto sloggiata. Se andasse in porto il progetto di metterla sul mercato dell’arte, con le case d’asta disposte a batterla a non meno dei fatidici venti milioni di sterline. Il pezzo fa gola: trattasi di una delle sei versioni dell’identico soggetto elaborate dallo scultore tra 1957 e 1958, mettendo insieme le suggestioni raccolte tra gli sfollati durante i bombardamenti nazisti della Seconda Guerra Mondiale e filtrandole attraverso un salutare bagno nella statuaria classica, conosciuta di prima mano in Grecia nei primi Anni Cinquanta. Le sorelle di Old Flo, come i vecchi residenti dell’East End chiamano la statua, sono oggi in museo a Bruxelles, Wuppertal, Melbourne, Gerusalemme e nella collezione della Yale University; l’immagine fiera e dolorosa della donna che si rialza nonostante la gravità delle offese subite dalla Storia, nata sulla scorta dei bozzetti per un’opera da consegnare alla sede UNESCO di Parigi, è considerata un’icona dell’arte a sfondo sociale e politico di Moore. Triste destino per un bronzo nato per essere forte simbolo identitario: in un quartiere dove la maggioranza dei residenti, oggi di etnia bengalese, la tragedia del Blitz su Londra non l’ha forse nemmeno sentita raccontare; dove un’assenza di quindici anni dal paesaggio urbano è sinonimo di inesorabile oblio. Lontano dagli occhi e dal cuore, non dalle tasche. È battaglia in seno al borough council di Tower Hamlets, ente di gestione amministrativa dell’area da sempre feudo laburista: la statua è di proprietà della collettività e quindi rimessa alla giurisdizione di un consiglio dove la proposta della vendita è oggetto di feroci discussioni. E mentre l’opinione pubblica si mobilita tra favorevoli e contrari, tra chi fiuta l’affare e chi predica contro la dispersione dei gioielli di famiglia, l’affare si complica: alla finestra i vicini di casa del borough di Bromley, che rivendicano voce in capitolo sulla titolarità dell’opera. A prescindere da come finirà con Moore la faccenda pone questioni intriganti se pensiamo di rapportare il caso al modello italiano: dove non mancano pezzi di maestri conclamati in giro per piazze e strade. E se un giorno si mettesse in vendita la sfilza dei Pomodoro sparsi per Roma, Milano, Terni, Belluno, Torino e via dicendo? Se la stessa sorte capitasse a Mitoraj, finito persino nell’orobica Osio Sotto, o al Pistoletto fiorentino? E al Consagra romano o al Cragg senese? Ma il vero nodo non è forse legato alla liceità e moralità dell’operazione. Quanto piuttosto all’esito della stessa: queste opere hanno mercato?
– Francesco Sala
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