I milanesi spendono ogni anno in cultura 150milioni di euro: Camera di Commercio e Civita tracciano il ritratto di una città che prova a immaginare il proprio futuro. Nel segno del design, naturalmente
Ci lavorano, ci guadagnano e – dunque – ci spendono. Milanesi e settore della cultura vivono un rapporto di stretta simbiosi: lo dicono i numeri con cui la Camera di Commercio del capoluogo lombardo e Civita hanno presentato le ultime analisi in merito alle possibilità di evoluzione della città nel segno di arte, design e […]
Ci lavorano, ci guadagnano e – dunque – ci spendono. Milanesi e settore della cultura vivono un rapporto di stretta simbiosi: lo dicono i numeri con cui la Camera di Commercio del capoluogo lombardo e Civita hanno presentato le ultime analisi in merito alle possibilità di evoluzione della città nel segno di arte, design e turismo di qualità. Punto di partenza: un’impresa culturale italiana su otto è a Milano, dove si concentrano 70mila professionisti del settore (circa un quinto del totale nazionale) e dove vengono spesi ogni anno tra cinema, mostre, teatri e musei la bellezza di 150 milioni di euro, venti al mese per ogni famiglia. Punto d’arrivo: ignoto. All’orizzonte c’è il 2015, naturalmente, ma come sottolinea Davide Rampello, già presidente della Fondazione Triennale e oggi direttore artistico dell’esposizione universale, “Expo è ora”. Intensa la sessione di incontri per osservare, analizzare e capire verso quale direzione sta andando una città incerta delle proprie possibilità e dalle idee poco chiare sul proprio futuro. La parola d’ordine è design: vissuto come glorioso e orgoglioso brand di identità locale, ma anche come unica possibile sintesi tra il mondo delle idee e quello, un po’ più concreto, dell’impresa. È lo stesso Rampello a buttare sul tavolo l’ipotesi di istituire un corso di formazione in design dell’agricoltura che, legandosi al tema di Expo, traghetti verso il futuro quella peculiarità tutta italiana che fa “del paesaggio una vera e propria manifattura”. L’esempio è quello delle colline del distretto di Conegliano, pettinate a dovere da generazioni di viticoltori ed oggi opportunamente sfruttate dall’operazione Prosecco; l’idea è che Milano possa diventare piattaforma privilegiata per la progettazione di analoghe situazioni di sviluppo sostenibile, portando tecnologia e innovazione. Sulla forza generatrice del design non può non concordare Arturo Dell’Acqua Bellavitis, presidente del Triennale Design Museum, secondo cui “moda e design sono gli unici settori che, storicamente, hanno saputo rinnovare la città”. Lo hanno fatto a suo tempo occupando Zona Tortona, causandone anche il rilancio dal punto di vista immobiliare; hanno provato a farlo con la coraggiosa ma sfortunata operazione della Triennale Bovisa, da sempre considerata come “la Siberia di Milano”. Lo fanno quotidianamente, guardando al modello rappresentato da una Bilbao dove il Guggenheim non è cattedrale nel deserto, ma vetrina dietro la quale si affaccia un fiorente distretto produttivo rivolto ad una creatività che non è rivolta al produttore finale, ma sa fornire componenti ed elementi per più tipologie di industria.
Alla Milano del presente guarda, con trascinante verve ironica, Gianni Biondillo, giallista della scuderia Guanda che da sempre ambienta le sue trame a Quarto Oggiaro: contro la visione statica di una città compressa nella cerchia dei Navigli, verso il riconoscimento della natura davvero metropolitana di un’area che non ha soluzione di continuità. E fa di Lugano un “quartiere ricco di Milano” e della A4, nel suo tratto fino a Bergamo, un ulteriore ramo di tangenziale. Cambiare una città si può: non è necessario investire importi milionari. Basta saper leggere la sua anima plurale. Così Nicola Russi, docente di Progettazione Urbanistica al Politecnico di Milano, che rivela come sia possibile individuare quasi novanta diversi “centri” della città, autodeterminati dalle comunità – anche minime – che vivono e animano quartieri e rioni, laboratori dove poter sperimentare forme di cambiamento. Come è stato fatto, con costi risibili, a New York: dove una banale revisione del piano del traffico, una mano di vernice e la posa di un minimale arredo urbano ha creato dal nulla la Flatiron Plaza, nuovo punto di ritrovo; e dove uno studio intelligente sulla pedonalizzazione attorno a Times Square ha contribuito a rilanciare i teatri di Broadway, in calo di pubblico anche per colpa di un traffico impossibile. Milano non è la Grande Mela, ma se un gruppo di studenti arriva con in mano il progetto per piazzare nei sotterranei della Stazione Centrale il museo d’arte contemporanea che Libeskind non farà più, significa che le idee ci sono. E ci sono le energie, come dimostrano i case history della Fondazione Trussardi e delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, del museo aziendale Kartell e delle collezioni Campari e Branca. Schegge di cultura che attendono solo di essere messe in rete, coordinate, organizzate ed esaltate. Ma quella è politica: qui si fermano le buone intenzioni, e cominciano le note dolenti.
– Francesco Sala
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