Biennale Updates: cosa ne pensa la stampa straniera della Biennale? Jeremy Deller troppo mainstream per il Guardian; Studio Azzurro brutta parodia di Bill Viola per Le Monde, che boccia pure Gioni.
Al doppio desk riservato agli ospiti stranieri, nella grandiosa e magniloquente sala stampa allestita all’Arsenale, è un continuo via vai di commentatori e fotografi, cameraman e blogger in arrivo dagli angoli più disparati del globo. Sovraeccitate le troupe della televisione russa, che sfarfallano senza soluzione di continuità e intervistano praticamente chiunque, con particolare attenzione al […]
Al doppio desk riservato agli ospiti stranieri, nella grandiosa e magniloquente sala stampa allestita all’Arsenale, è un continuo via vai di commentatori e fotografi, cameraman e blogger in arrivo dagli angoli più disparati del globo. Sovraeccitate le troupe della televisione russa, che sfarfallano senza soluzione di continuità e intervistano praticamente chiunque, con particolare attenzione al colore e alle rarità del bestiario umano che si aggira in questi giorni a Venezia. Ma insieme alle stranezze arrivano, su magazine e quotidiani, anche le prime recensioni. E non sempre sono tenerissime, anzi. Il Guardian pressa da vicinissimo Jeremy Deller, pubblicando a stretto giro di posta – sulla versione digitale del quotidiano – intervista, fotogallery, report, video; ma dal suo blog Jonathan Jones riflette sulla possibilità che il nostro, e l’arte britannica contemporanea in genere, sia a rischio contraddizione quando propone riflessioni politiche. “Troppo mainsteam per essere sovversiva” è il commento di una generazione – con Deller ci puoi mettere pure Tracey Emin e soci – che ha potuto permettersi di fare l’artista grazie al progressivo benessere costruito dalla Thatcher e da quel sistema sociale che ora, più o meno manifestamente, contestano.
Il New York Times, che alla vigilia della Biennale aveva dedicato a “l’ambizioso” Gioni una lunga intervista, oggi si sofferma su una cronaca tanto minuziosa quanto asettica della partecipazione di Ai Weiwei – intervitato dai tedeschi di Der Spiegel –, e con Carol Vogel racconta con dovizia di particolari – si arriva persino allo spelling del nome dell’artista! – il lavoro di Sarah Sze. Stupisce, per gli osservatori d’oltreoceano, la capacità dell’artista di essere entrata in simbiosi con una città nella quale si è trasferita già a fine marzo: “quando cammina per strada, in modo poco appariscente con i suoi jeans neri e il giubbotto scuro, gli edicolanti e i ristoratori la salutano e la chiamano per nome”.
Non bada troppo per il sottile Le Monde, quando bolla l’intervento di Studio Azzurro nel Padiglione della Santa Sede come una “brutta parodia” di Bill Viola; e quando, soffermandosi sul gusto antropologico ed etnografico di Gioni per “l’art brut” e i vari non professionisti – ovviamente Marino Auriti, ma anche Bispo Do Rosario – annota come certe (ri)scoperte siano già state tentate negli ultimi anni alle Biennali di Lione e San Paolo: “il Palazzo Enciclopedico veneziano prende atto di questa evoluzione, ma tardivamente e senza tuttavia evitare le approssimazioni”. Domande vere quelle del magazine di El Mundo, che a Gioni dedica una lunga intervista. Perché un curatore giovane ha selezionato così tanti artisti storicizzati? “Quello che caratterizza la mia generazione è un nuovo sentimento nei confronti della sincronia temporale, che ha a che vedere con ciò che significa essere contemporaneo”. Da qui, insomma, la nascita di una raccolta che punta a svelare “come costruiamo quello che sappiamo e quello che non conosciamo”.
– Francesco Sala
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